“Sehnsucht” è l’unione di due arti. È la scrittura unita alla fotografia. È l’ispirazione del momento. È un attimo di vita. È la ricchezza del dettaglio. È il sogno ad occhi aperti. È la voce dell’anima. È la malinconia e la gioia. La vittoria e la sconfitta. È la ricerca. La lotta. Il pensiero e la parola. La voce e il silenzio. È l’istinto. È l’ispirazione. “Sehnsucht” siamo noi e siete voi. “Sehnsucht” è il desiderio di desiderare.
Una rubrica a cura di Valerio Polani e Cesare Zomparelli
Rimasi sorpreso quando Linda mi chiese di esprimere un desiderio. Cioè, so che non è la domanda più strana del mondo, anzi, ma, insomma, era tanto che nessuno mi chiedeva più una cosa del genere. L’ultima volta forse avevo quattordici o quindici anni, era la notte di S. Lorenzo ed ero sopra la terrazza della palazzina al mare dove andavo in vacanza con i miei, in un paese sperduto in Puglia di cui nemmeno ricordo bene il nome.
Poi penso non sia più successo, per quello mi trovai impreparato. Ma sapete qual è la cosa che più mi colpì? Quella che più di tutte mi fece bloccare, che mi fece davvero soffermare un attimo in più a pensare?
Io, avevo ancora desideri?
Quando partii per Berlino ne avevo una valigia piena che non sapevo più dove metterli, sognavo ad occhi aperti e già solo il sognare mi faceva sentire felice. Poi è passato il tempo, si sono alternati i giorni, le esperienze negative e positive, è sorta la distrazione. Forse i desideri erano troppi e si erano accavallati uno sull’altro, scomponendo il puzzle che stavo cercando di costruire con tutte le mie forze.
Avete presente i mattoncini del Tetris? Era come se avessi tutti i pezzi a disposizione, ma nel cammino avessi dimenticato quale fosse l’obiettivo del gioco. Volevo solo collezionarli uno dopo l’altro, ma non mi importava più di costruire il muro.
Era quello l’errore.
“Esprimi un desiderio”
“Linda”, dissi. “Perché?”, continuai con tono freddo.
“Perché, che ho chiesto di male? È solo una domanda come un’altra”
Aveva ragione.
Era solo una domanda come un’altra, ma fece centro. Riattivò quella scintilla che, senza rendermene conto, con il tempo si era spenta, poco a poco, sempre di più. E la colpa era solo mia.
Non seppi rispondere. O almeno non subito.
Mi guardai un po’ intorno, sospirai, forse sbuffai. Mi toccai il mento e mi passai agitato una mano sulla barba, perché è cosi che faccio quando vado in crisi. Poi, mi fermai un secondo. Guardai davanti a me.
“Le vedi quelle bici?”
“Dai, non dirmi che il tuo desiderio è di avere una di quelle bici…” rispose Linda, accennando un sorriso.
“No, no… cioè, forse sì, ma non materialmente. Vorrei prendere una di quelle bici e vorrei che fosse in grado di camminare nel tempo. Vorrei pedalare, pedalare e pedalare ancora senza sentire mai la fatica e il dolore nelle gambe, arrivare al giorno della mia nascita e ripercorrere tutta la mia vita, rivedere tutto ciò che ho fatto, le mie esperienze, i miei errori… vorrei arrivare al giorno in cui dissi ai miei che volevo trasferirmi a Berlino, vorrei rivedere il giorno della mia partenza in aeroporto a Malpensa, vorrei rivedermi non appena misi piede per la prima volta a Schönefeld, e poi vorrei arrivare fino ad oggi, qui ad Hasenheide, mentre mi chiedi di esprimere un desiderio!”.
“E poi?” mi interruppe Linda, frenetica.
“E poi viene il bello! Perché posso vedere come sarà la mia vita da oggi in poi, capire cosa mi aspetta, vedere dove sbaglierò e quindi avrò la possibilità di cambiare il corso degli eventi!”
“Ah beh, sei furbo tu…”
“È un desiderio come un altro, no?”
“Si, lo è”
Lo era.
E per quanto fosse materialmente e razionalmente impossibile, per quanto sapessi che tutto ciò non si sarebbe mai potuto avverare, ebbi l’impressione di svegliarmi, capii. Mi rimisi in corsa, ritrovai il sentiero, realizzai di nuovo che l’obiettivo del gioco è quello di costruire il muro e non di collezionare mattoncini uno dopo l’altro, a caso, per noia.
Sentii che qualcosa cambiò in quel momento. Forse è il caso di dire che cambiai io, ma mi sembrerebbe di passare da superficiale se sostenessi di averlo fatto dopo una domanda banale come quella che Linda mi pose.
Perlomeno sono sicuro che capii qualcosa che avevo dimenticato, iniziai a fare di nuovo i conti con me stesso e mentre osservavo fisso quella bici, mi vedevo pedalare nel futuro. Mi vedevo realizzato, ma non sapevo sotto quale punto di vista. Mi vedevo felice, ma non sapevo perché. Mi vedevo sorridente e mi chiedevo come mai.
“Oh, ma che ti sei incantato?” mi distrasse Linda, di nuovo.
Io scossi un po’ la testa.
“No, no!” esclamai, sapendo di mentire. “Offrimi una sigaretta, dai”, continuai.
“Tieni”. La accesi e tornai fisso sulle bici.
Feci un paio di tiri ben aspirati, poi mi voltai di nuovo verso Linda, che nel frattempo cercava qualcosa nella borsa.
“Sai che c’è?” le dissi.
“Che c’è?” rispose lei, continuando a frugare nella borsa nera fatta di stoffa dalla quale è inseparabile da quando la conosco, l’unica borsa che le ho visto indossare, da sempre.
“Domani compro una bici!”.
Valerio Polani non sa ancora chi è, semplicemente cerca ogni giorno di scoprirlo sognando a Berlino, città nella quale vive ormai da diversi anni. Il suo metodo di ricerca è una penna che a volte scotta tra le mani, ma che lo aiuta a scegliere il percorso giusto tra i mille che gli si presentano davanti. Appassionato di musica, quasi ossessionato da quella elettronica, collabora, oltre che con “Il Mitte”, con alcune webzine di musica. La sua vita è una cornice composta da parole e note che si intrecciano, lo coccolano e lo imprigionano in una dimensione che lo rende schiavo, ma che comunque ama. Adora Berlino perché è tra le sue strade che trova l’ispirazione. Odia il tutto, ma è tremendamente affascinato dal nulla.