Mop Mop a Berlino: intervista al fondatore Andrea Benini
Ho passato l’infanzia a sorbirmi le lezioni di mio padre. Mi chiamava dal salotto, poi mi imponeva di accomodarmi sul divano e metteva su vinili a ruota.
Questo è John Coltraine. Questo è Benny Goodman. Questo è Duke Ellington. Questo è Charlie Parker.
Nel frattempo, i miei amici giocavano a pallone in cortile.
Il fatto che, dopo aver vissuto tutto questo, io apprezzi ancora il jazz ha un che di miracoloso.
Ma forse è merito di musicisti come i Mop Mop: gente che ha preso il genere, lo ha smontato pezzo per pezzo al fine di conoscerlo a menadito e poi l’ha rimontato a modo suo, aggiungendo ingredienti provenienti da altre tradizioni musicali.
Quando vengo a sapere che vivono a Berlino, prendo in seria considerazione il fatto di essere un giornalista iscritto all’albo e decido di intervistarli.
Il loro manager mi fissa un appuntamento a casa del fondatore, Andrea Benini, cesenate, classe 1977.
E’ un sabato e il cielo di questa metropoli è ancora indeciso.
Mangio un börek spinat-käse in una Bäckerei sulla Karl-Marx-Allee e me ne pento, come sempre. Con l’animo unto suono il citofono nutrendo la speranza di non dover affrontare un quinto piano senza ascensore.
– Primo piano –
Già partiamo bene.
Andrea mi accoglie con un cappello in testa e in ciabatte. In concordanza col canone domestico in auge da queste parti, ne offre un paio pure a me.
Io non bevo caffè, quindi non ne ho in casa – mi dice subito – però posso prepararti lo stesso qualcosa. Che prendi?
Un caffè – rispondo.
Andrea sorride, poi si ricorda di avere un barattolo di solubile e accende il bollitore, scusandosi per il fatto di essere italiano e non possedere una moka.
Quando entriamo nel suo studio la prima cosa che noto è un arsenale di attrezzature musicali vintage. Resto incantato e penso che mio padre, per possederle, sarebbe ancor oggi in grado di vendermi come ostaggio a qualunque tipologia di terroristi.
Accendiamo entrambi una sigaretta e poi cominciamo a chiacchierare.
Una domanda che ti avranno fatto in molti, ma che viene spontanea dal momento che la definizione di “Mop Mop” non la trovi di certo nel dizionario Zanichelli. Cosa significa? Perché hai scelto questo nome?
Beh, non la trovi di certo in uno Zanichelli, ma in realtà la tua domanda cade a fagiolo. Lascia che ti racconti.
Era il 1997 se non vado errato. Passeggiavo per Bologna quando la mia attenzione venne attirata da una piccola libreria che promuoveva degli sconti. Entrai a fare un giro: spulciando qua e là mi capitò tra le mani proprio un dizionario. Un dizionario del Jazz, per essere precisi. Lo comprai.
Più tardi, a casa, mi imbattei quasi subito in questo termine mai sentito prima: Mop Mop, per l’appunto.
Il suono mi intrigò e decisi di approfondire. Leggendo, venni a sapere che nella New Orleans degli anni trenta la musica dei funerali era curata da brass band di fiati ed aveva una struttura fissa: un ostinato su cui si inserivano poi degli assoli di fiati.
Questo era il Mop Mop: ovvero, quello che io e la mia band facevamo proprio in quegli anni di sperimentazioni bolognesi.
Decisi che ci saremmo chiamati così, non potevo fare altrimenti.
Vivete e lavorate a Berlino, dove ha sede anche il “Mop Mop studio”. Come vivete questa città e le trasformazioni che sta subendo negli ultimi anni, specie sotto il profilo artistico?
Personalmente vivo qui da sette anni e mezzo ormai. Berlino è cambiata molto in questo lasso di tempo, è vero, ma a mio parere resta ancora una metropoli affettuosa.
Mi spiego meglio: pur essendo molto grande, ti offre la possibilità di viverti molto il quartiere e di sentirti dunque come in un piccolo paese.
Per me che vengo dalla provincia, questa è una gran cosa. Mi fa sentire un po’ a casa.
Certo, è impossibile ignorare il vertiginoso aumento degli affitti, anche perché si porta dietro delle conseguenze piuttosto importanti. Per esempio, ho notato che molti spazi underground sono stati costretti a chiudere o a trasferirsi fuori dal ring. Spero che questo processo si arresti quanto prima, anche perché la totale delocalizzazione di luoghi destinati all’arte e alla sperimentazione, toglierebbe a questa città gran parte del suo spirito.
Hai scritto, arrangiato, prodotto e registrato il vostro ultimo lavoro. Quanto è impegnativo controllare ogni sfumatura di un progetto tanto ambizioso?
Lo è tantissimo, ma al tempo stesso devo ammettere che mi piace molto curare ogni singolo aspetto del processo di produzione.
Certo, il mio ruolo è zeppo di responsabilità, ma devo dire che fino ad ora tutto questo non ha fatto altro che fornirmi gratificazioni. E poi ho il supporto di un gruppo che stimo oltre che musicalmente, anche a livello umano.
I Mop Mop, oltre ad essere affiatati in sala prove, lo sono anche nella vita. E quando si lavora così, tutto diventa molto più semplice.
Ben 4 dei vostri 5 album sono stati prodotti da etichette tedesche. E’ una scelta vostra? E in ogni caso, che differenze noti tra la produzione discografica italiana e quella estera? Credi che il vostro successo all’estero dipenda dall’educazione del pubblico o dallo scarso coraggio dei produttori italiani?
Il problema è che in Italia non ci si rende ancora conto che si può fare del buon business anche con la musica undergound. Non esiste ancora una una base imprenditoriale attiva che si occupi di reclutare talenti nelle retrovie. Si punta solo bovinamente al circuito mainstream, a differenza di quanto accade in paesi come la Germania, il Regno Unito, la Francia o i paesi scandinavi.
E difatti, se è vero che io vivo di musica da molti anni ormai, lo è altrettanto il fatto che per farlo sono stato costretto ad andare via.
Rimango ottimista sugli sviluppi futuri, però: ultimamente anche nel bel paese le cose stanno cambiando, a mio parere. Per esempio noi abbiamo delle grosse novità in merito, ma per adesso non posso anticiparti nulla.
“Lunar love”, in uscita a maggio 2016, è il vostro quinto album. Come è cambiato negli anni il vostro modo di creare?
Fondamentalmente il processo creativo è rimasto costante nel tempo. C’è una fase di pre-produzione della durata di circa cinque o sei mesi, in cui io e la band non facciamo altro che ascoltare in modo onnivoro: dalla musica classica, alle nuove tendenze da club, passando per il jazz e la roba meno conosciuta in circolazione. Stiliamo così un catalogo di spunti che poi in una fase successiva andiamo a sfoltire. A partire da questi, costruiamo infine una struttura sonora, sempre rispettando una nostra coerenza stilistica.
E’ dunque vero che ogni album è influenzato dagli ascolti del momento, ma è altrettanto vero che il nostro sound è sempre riconoscibile.
A quanto ne so avete spesso usato strumentazioni vintage e nastri analogici. La cosiddetta “era digitale ha aggiunto o sottratto qualità alla vostra musica?
Entrambe le cose sono vere, ma non solo per noi. Il digitale ha aperto le porte un po’ a tutti, democratizzando la strumentazione e rendendola alla portata di tutte le tasche.
Come sempre però, quando si introduce una nuova tecnologia, bisogna stare attenti ad utilizzarla nel modo giusto e soprattutto a non abusarne. Anche perché se sei nato a cavallo tra l’analogico ed il digitale e conosci entrambi, puoi certamente renderti conto delle differenze.
In un certo senso, le strumentazioni analogiche sono ancora qualitativamente superiori ai software e ai plug-in che si possono utilizzare per fare musica. D’altro canto, la tecnologia digitale consente di fare cose che con l’analogico erano proprio impensabili.
La vostra collaborazione con Anthony Joseph (poeta e interprete) è ormai continuativa, ma sono diversi gli artisti che negli anni hanno contribuito al vostro progetto. Con che criterio li avete scelti? E qual è la vostra lineup per Xjazz?
Solitamente sono io che ascolto roba in giro e se sento cose che possono aggiungere qualcosa ai nostri lavori, contatto gli artisti personalmente. Così è successo con Anthony Joseph. Conoscendoci poi abbiamo scoperto di aver molte cose in comune: ci siamo trovati insomma, ed è per questo che adesso collaboriamo non solo discograficamente, ma anche live.
Per ciò che riguarda la line up per XJazz saremo in full combo: presenteremo il disco nuovo Lunar Love e saremo la band storica originale dei Mop Mop, con l’innesto di due dei tre cantanti presenti nello stesso album.
La vostra musica è fatta di tantissime contaminazioni e così anche XJazz, che sembra il luogo perfetto per voi. Cosa mi dici, in chiusura, di questo festival? Lo consigliamo caldamente ai nostri lettori?
Lo conosco abbastanza bene, noi anche se in formazioni diverse suoniamo per XJazz da quando è nato.
Lo consiglio assolutamente, specie in virtù della sua eterogeneità. Accanto al jazz più classico, si esibiscono artisti d’avanguardia e sperimentazione, ci puoi trovare il funk, ma anche il soul e l’elettronica. E poi ci siamo noi, col nostro ultimo album. Un motivo in più per fare i biglietti presto.
Lineup per XJazz
Andrea Benini – Drums, Drum Machines, Percussions, Vocals
Alex Trebo – Piano, Electric Piano, Synthesizers, Wersi Bass
Pasquale Mirra – Vibraphone, Marimba, Balafon, Glockenspiel
Salvatore Lauriola – Electric Bass, Double Bass
Danilo Mineo – Surdo, Congas, Tumbadora, Udu Drums, Talking Drum, Krakebs, Shakers, Rattles
Additional Musicians :
Anthony Joseph – Vocals
Wayne Snow – Vocals