Ho incontrato dei nazi e ho ancora i denti

nazi canva pro

Non è mica normale che la mia prima autentica interazione con dei nazi sia avvenuta solo tre settimane fa, dopo 36 anni che soffro di seri problemi intestinali.

Cioè, mica mi stupisco di non aver mai incontrato dal gastroenterologo un guelfo, un ghibellino o un fan di Paolo Vallesi: è normale che no, sono morti tutti. Ma coi nazi invece la faccenda è diversa. Coloro sono ancora tra noi e continuano fino ad oggi a prendere appuntamenti per ecografie addominali, ne sono sicuro.
Conducono sfacciatamente una vita normale, come se nel novecento le loro idee non avessero ucciso milioni di persone, ma semplicemente rigato il paraurti di una Ford Fiesta.
Sopravvivere culturalmente persino alla vergogna di un olocausto: a quanto pare si può, basta avere una faccia come il culo oltre il verosimile come la loro.

Comunque: alla fine il mio incontro ravvicinato del primo genotipo non avviene dal medico del duodeno, ma in una birreria.
Abbiamo l’onore, io e altri sei amici, di farci trattare di merda dalla razza superiore in una kneipe di Lichtenberg in cui capitiamo per caso, per quanto riconosco che capitare per caso in una kneipe di Lichtenberg sia tecnicamente impossibile su questo pianeta.

insulti razzisti
Lichtenberg, scorcio del quartiere di Neu-Hohenschönhausen. Christian Liebscher (Platte), CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Entriamo intorno alle ventitré senza renderci conto che l’atmosfera sia per noi eugeneticamente irrespirabile e, belli tranquilli, prendiamo posto in un tavolo come se il nostro dna fosse adatto a tutte le occasioni.

A primo impatto il luogo non appare antisemita e si mostra semplicemente brutto e fumoso come ogni kneipe berlinese; dunque pieno di fascino e di vite utilizzate male, nulla di più.
A pochi passi da noi il primo esempio: un tizio talmente infoiato col videopoker che poi si capisce facile perché gli usurai esistono e ti sorpassano in autostrada con un Porsche Carrera.
E’ concentratissimo a perdere potere d’acquisto in modo irreparabile, non si accorge del nostro arrivo e manco si ricorda di aver piazzato il soprabito a cazzo di cane su una sedia che vorrei occupare io, sempre che non le dispiaccia.

– Scusi, questo cappotto è suo?
– Sì, appendimelo lì.

Sembra che io sia in grado di mettere davvero a proprio agio le persone, ma a quanto pare ultimamente sto un po’ esagerando.
Torno al tavolo dal guardaroba e ci trovo un altro elemento determinante per la perfetta realizzazione di una serata di merda: è grande, grosso, rasato e tatuato in testa come solo nei migliori stereotipi e poi, soprattutto, totalmente privo di deodorante per le ascelle.
Puzza in modo incompatibile con qualsiasi metabolismo basale e ci induce così da subito a pensare, a me e alla mia combriccola, che brevettare la sua maglietta come il primo maleodorante per ambienti della storia può essere una buona idea.
Mentre elaboriamo i possibili sviluppi commerciali della cosa, lui ci interrompe però e comincia a sbraitare.

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– Italiani!
Mussolini! Eros Ramazzotti! Silvio Berlusconi! Cosa Nostra!

Fa sempre un certo effetto quando il vocabolo più gradevole di una qualunque serie sia un sinonimo della parola Mafia.
Poi di nuovo, un pattern di urla:

– Mussolini! Mussolini! Mussolini! Mussolini! Mussolini!

E contemporaneamente ci scaglia addosso un’altra zaffata micidiale del suo organismo.
L’olezzo ci stordisce assai, a tal punto che per capire dove siamo finiti davvero, abbiamo bisogno di sentirgli pronunciare altre trentanove volte il nome del Duce.

– Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!
Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!
Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!
Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!
Mussolini!Mussolini!Mussolini!Mussolini!

Poi finalmente l’informazione giunge a destinazione.
Ovvero: siamo di fronte a dei nazi veri, nazi a tutti gli effetti.
Per capirci, quel tipo di gente che di solito non si comporta bene in biblioteca. O meglio, di più: nazi veri, nazi a tutti gli effetti e sbronzi come le merde, e cioè individui che farebbero i maleducati persino durante l’esecuzione del delitto di Cogne.
Come dire, stiamo per accedere all’interno di una situazione irreversibile e poco controllabile.
Più che altro non abbiamo gli strumenti per gestirla: perché da piccoli i genitori ti spiegano sì come impugnare il coltello per tagliar bene la cotoletta, non di certo per infilzarlo nel pancreas di uno skinhead alla sesta pinta di Schulteiss.

– Vedi Giulietto, quando incontrerai un nazista sbronzo a livelli indecifrabili che ti mette in soggezione urlando il nome di un dittatore fascista, impugna il manico in questo modo e mira in panza. Vedrai come si acquieta subito.

Niente, nessun padre e nessuna madre abbastanza competente in pedagogia.
Fortuna che qualche secondo dopo giunge la barista a trattarci ancora peggio sì, ma a sottrarci almeno dalle grinfie sudoripare del tipo.
Non è chiaro il tipo di fondotinta che usa a sproposito, ma guardandola è possibile desumere un’informazione più narrativa: non è stata lei a scegliere la sua vita.
Ha piuttosto la faccia di una che sembra dichiarare al prossimo:

Che cacchio ne so, Dio Cristo. Non ho idea di cosa sia successo. Ero uscita per comprare l’ibuprofene e un attimo dopo mi sono ritrovata ad essere stronza coi clienti qui dentro.

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Mi sfiora involontariamente il braccio contagiandomi la morte che ha nel cuore, poi, dopo aver preso le ordinazioni, torna al bancone senza nascondere una certa soddisfazione sadica. Come se fosse stata appena incaricata di prepararci non tanto delle birre ma dei clisteri di Dixan.
Difficile raccontarvi per filo e per segno il resto della serata: non sono uno scrittore di fantascienza.
Ma mi tocca quantomeno rassicurarvi e farvi sapere che da lì a qualche minuto le persone attorno a noi peggiorarono, come del resto peggiorarono pure i fatti accaduti; la cronaca insomma.

Almeno due highlights però: uno skinhead che mi chiede di fotografargli la panza decorata da croci celtiche e brufoli pronti per essere schiacciati, e un altro tifoso di Hitler che prende un mocio vileda lercio di epatite e lo passa sul nostro tavolo per asciugare una birra accidentalmente caduta.
Queste cose accadono davvero, posso testimoniare mnemonicamente; poi è arrivato il settimo shot di Jägermeister.
E nonostante tutto questo non è scoppiata alcuna rissa.
Nonostante, nella fattispecie, la quantità di energia negativa presente nell’aria fosse tale da poterci alimentare l’amplificazione per il concerto di tre cover band.

Insomma, un mondo brutto. Ma brutto forte. Così brutto che gente come questa non meriterebbe di morire, ma di vivere.
Azzardo un revisionismo storico: è forse per questo che hanno praticato lo sterminio.
Nel senso, si rendevano probabilmente conto di fare così schifo da meritare non solo il pianeta terra, ma per di più un pianeta terra abitato esclusivamente da loro.
In ogni caso adesso basta prendersela coi nazi, sennò rischio di diventare retorico in modo banale e di strappare consensi con questa facilità.


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E poi diciamo la verità: non è sufficiente parlare male dei nazi per essere buoni, come non basta essere un nazi per fare schifo. Oddio, in realtà di norma sì.
Ma non dobbiamo dimenticare che c’è stata gente altrettanto zozza in giro di questi tempi, tipo il discografico che produsse il primo singolo alle Las Ketckup tempo fa.

Tre minuti e trenta secondi di tormento radiofonico che nel mondo reale equivalgono a circa nove o dieci olocausti.
Per cui forse è il genere umano preso nella sua interezza ad avere qualche problema con la bellezza e con l’etica, diciamo.
Penso davvero che sia così.
Sennò non si spiega com’è che abbiamo avuto tutti questi millenni a disposizione per costruire una società quantomeno accettabile e invece, ancora oggi, ci ritroviamo davanti l’ufficio dell’Inps.

*Pseudonimo*

Quando ero piccolo tutti avevano un sogno nel cassetto, e invece io ce l’avevo nel portaoggetti della Clio. In ogni caso non s’è ancora realizzato, quindi inutile parlarne. Vivo in questo pianeta da trentasei anni e a Berlino da circa quattro. Dal 2006 in poi ho peggiorato qualitativamente riviste su abbonamento (Progress, Progress Viaggi, All about Italy), webzine (Bazarweb, Fuoribusta), riviste settoriali (Cinemabendato, Wundergammer, Fermentobirra Magazine), cartacei satirici (Mamma) e testate nazionali (Il Fatto quotidiano). Nel 2009 la giuria specializzata del Premio Franco Solinas ha erroneamente giudicato interessante un mio trattamento cinematografico dal titolo “Guarda e passa”, segnalandolo altrettanto erroneamente ai produttori.
Per il Mitte curo la rubrica “Welche sauce?” dal sottotitolo giustamente poco pubblicizzato“Kebab e altri punti di vista fuorvianti su Berlino”
Utilizzo le residue energie vitali nel tentativo di elaborare una maldestra poetica fotografica (www.pietroromeo.net). Attualmente sono inoltre impegnato a vivere la biografia di un altro e a non accontentarmi di quello che ho.

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