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Immigrati, fermatevi e guardatevi intorno

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Photo by Baptiste Pons

di Mattia Grigolo

– Una bella mattina, Missio e io fummo svegliati da un gran tramestio ai piani superiori. Ci vestimmo in fretta. Di sopra c’era New York! – 

Passeggiare senza dovere necessariamente raggiungere una meta nel breve periodo mi è diventato, ultimamente, pressoché impossibile. Semplicemente sono oberato di lavoro. Comincio al mattino molto presto e finisco alla sera molto tardi. Ricordo le parole dell’autore e poeta Emanuel Carnevali, citazione dal romanzo autobiografico ‘Il Primo Dio’: “Il mio lavoro era il mio delirio, il mio amore senza amore…il mio lavoro era la mia via crucis, la mia miseria, il mio odio.”  La necessità di lavorare per guadagnare e quindi vivere, chiede la sua parte di bottino e la preleva dai momenti, incassandola lontano dalla vita.

Mi è capitato di appassionarmi, grazie ad una serie di buffi eventi, al sopracitato scrittore bolognese, partito giovanissimo per gli Stati Uniti inseguendo un coraggioso sogno letterario. Ho divorato i suoi versi senza essere un grande appassionato di poesia, ho letto più volte – anche a voce alta, in casa da solo – la sua tormentata prosa, immancabilmente pessimista e buia, malinconicamente arresa. Emanuel Carnevali è stato un emigrato.

Poi mi sono fermato. E ho voluto passeggiare.

Un collega un giorno mi ha detto: “Io vado a fare jogging ogni volta che posso, perché è quando corro che partorisco le idee migliori.” A me capita quando passeggio, quando cammino senza una meta, o quantomeno quando non devo lottare contro il tempo per raggiungere il punto B partendo il prima possibile dal punto A.

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Photo by Alexander Rentsch

Qualche giorno fa ho passeggiato. Sono uscito di casa e ho rallentato, mi sono imposto di non rincorrere niente e nessuno, per una volta. Non lavorare. E mi sono guardato intorno. Mi sono affacciato, pur essendo per strada. Mi sono preso i rumori, i suoni, mi sono spalmato addosso il freddo che avevo smesso di percepire e gli odori a cui mi ero abituato. Ho iniziato a cogliore, di nuovo. Intorno avevo Berlino.

E mi sono accorto di non essere più straniero a questa città, di essermi portato dentro il suo bene e il suo male, come in tutte le cose e tutti i luoghi che diventano casa. Mi sono guardato intorno e ho visto con occhi nuovi quella stessa strada che ho percorso ormai decine e decine di volte. La parola giusta è consapevolezza. Ho pensato che è questo il bello di immigrare, diventare parte di un mondo e di una cultura che non è tua e imparare. Sembra un pensiero banale e probabilmente lo è, però mi sono chiesto, in quel momento mentre passeggiavo, e me lo sto chiedendo ora: quanti di coloro che hanno lasciato casa per trasferirsi in una nuova nazione, hanno fatto questo stesso pensiero? Quanti si fermano a ricordarsi dove sono e dove sono stati? Tutti inseguono il sogno, come Carnevali, alcuni lo afferrano altri lo sfiorano soltanto, ma quanti di questi si guardano intorno con la giusta consapevolezza?

Mentre passeggiavo, le mani in tasca e lo sguardo ovunque, incrocio due ragazze italiane che chiacchierano tra loro. Accompagnano le biciclette reggendole dai manubri. Nei pochi istanti concessimi per udire ciò che dicono, tendo l’orecchio, ma non sento nulla. Eppure so che stanno parlando in italiano. Lo so. Non sento niente, nemmeno una parola. Poi scompaiono alle mie spalle. Nemmeno mi volto e non posso non sorridere.

Quante volte abbiamo cercato di studiare, marchiare, giustificare, glorificare e denigrare l’emigrazione e gli immigrati? Emigriamo da sempre, noi italiani come chiunque, emigreremo oltre il nostro pianeta un giorno lontano. Non smetteremo mai di farlo, perché funziona così e perché le congetture e gli studi servono solo ai dati. Sono le motivazioni ad avere sempre ragione.

Fermatevi e guardatevi intorno.

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