di Mattia Grigolo
E’ il primo ottobre del 2015, sono le 14.40. Un uomo, occhiali sul naso, indossa un maglione bianco, forse troppo largo per la sua corporatura, pantaloni classici di colore chiaro, regge in una mano un peluche. Stringe le dita di un bambino con l’altra. E’ un primo pomeriggio soleggiato a Moabit, davanti al “LAGeSo” (Landesamt für Gesundheit und Soziales), l’Ufficio di Stato per gli Affari Sanitari e Sociali di Turmstraße 21.
Questo bambino ha un nome e un cognome, si chiama Mohamed Januzi, ha 4 anni ed è bosniaco. E’ arrivato a Berlino da rifugiato, insieme ai suoi genitori e altri due fratelli attendevano di potere entrare negli uffici e così avviare le pratiche per la richiesta del diritto di asilo. La famiglia è a Berlino dal 2013 e ha sempre vissuto a Reinickendorf. L’uomo con il quale si allontana non ha un nome, non hanno nessun legame di parentela. Quest’uomo e Mohamed Januzi non si conoscono: lui è il rapitore.
Questo è solo il prologo di ciò che abbiamo già rivelato nel titolo del nostro articolo. Dal momento in cui le due figure escono dall’inquadratura sbiadita della telecamera a circuito chiuso, che segna un giorno e un’ora precisa dall’inizio di questa drammatica storia, comincia l’inferno personale di una famiglia e la tristezza infinita di un’intera città, di una nazione probabilmente. Dell’Europa forse.
La Polizia tedesca comincia le ricerche quasi immediatamente, vengono distribuiti volantini con la foto di Mohamed, viene divulgato in rete il video dei pochi secondi e dei pochi metri in cui possiamo vedere il rapitore e il piccolo allontanarsi. Prima di scomparire, ma per un mese soltanto.
Ventinove giorni di ricerche e il bambino viene ritrovato dalla Polizia. Il suo cadavere è nel bagagliaio di un’auto in un villaggio nei pressi di Jüterbog. Il proprietario viene prelevato ed interrogato. Indossa occhiali da vista e assomiglia molto all’uomo del video divulgato.
Il rapitore ha anche un’età: 32 anni, ha vissuto nel villaggio insieme alla madre ed ora confessa il rapimento e l’uccisione di Mohamed.
Una madre perde il figlio e un’altra lo denuncia: è proprio la donna che ha messo al mondo il rapitore a chiamare le autorità quando vede le immagini del video delle telecamere di sorveglianza alla tv, in uno dei tanti servizi che i telegiornali nazionali hanno trasmesso. Afferma che il figlio ha confessato e vuole costituirsi. La Polizia arriva al villaggio, alla casa e preleva sia l’uomo che la donna. Il corpicino di Mohamed viene trovato nella macchina, all’interno di una lettiera per gatti.
Gli interrogatori iniziano subito, sono serrati e il movente sembra essere legato alla pedofilia, perché l’uomo non fa parte di gruppi di estrema destra, quindi non si sospettano gesti xenofobi.
C’è di più purtroppo e, forse, non è nemmeno l’epilogo di questa triste vicenda: oggi l’uomo sembra aver confessato anche l’assassinio di un altro bambino di 6 anni, scomparso a Potsdam-Schlaatz a luglio passato. Si chiama Elias.
Si attendono altre informazioni riguardo gli interrogatori e l’autopsia sul cadavere di Mohamed Januzi. Berlino si stringe attorno alla famiglia del bambino; sono già stati organizzati dei cortei e altri se ne organizzeranno.
Capita molto spesso che i rifugiati si ritrovino davanti agli uffici predisposti alla richiesta d’asilo. Altrettanto spesso si creano grosse folle in cui uomini, donne e bambini si ritrovano a dover affrontare lunghe attese. Il rapinatore potrebbe avere agito aiutato da una situazione del genere.
Sono molti i rifugiati di cui, ogni anno, si perdono le tracce. Alcuni vogliono nascondersi, cancellarsi, diventare nessuno. Altri, come in questo caso, sono bambini che spariscono nel nulla.