La fine di Berlino

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di Paola Moretti

Mio padre è quel tipo di uomo che con i regali per le donne è un disastro. Non so se il suo insistere nel propormi profumi, vestitini e collane delicate, fosse in realtà un sottile invito ad essere un po’ più femminile o se semplicemente non avesse la più pallida idea di cosa mi piacesse. Quest’anno mi ha regalato degli smalti con i glitter, che ho apprezzato solo perché ho il gusto dell’orrido. Due anni fa invece mi ha comprato una guida allo stile, scritta da Angelika Taschen, “La Berlinese”, in cui compaiono frasi come: “La ricerca della borsa perfetta per la Berlinese è più importante della ricerca dell’uomo giusto. L’animale metropolitano ha bisogno di portare le sue cose sempre con sé, e la borsa deve poter fare la sua figura”. Diciamo che mio padre ha anche un senso dell’umorismo tutto suo.

Comunque sia, quando ho letto l’occhiello che presentava il libro come “guida all’alternative chic” ho pensato: questa è la fine. Se Berlino era in procinto di diventare una capitale di stile quando qualche tempo prima ero uscita con leggins giallo-fluo abbinati ai guanti di gomma per le pulizie e vestito azzurro-stabilo, senza destare il minimo sconcerto in chi mi osservava, voleva dire che qualcosa stava cambiando. Effettivamente era da poco passato il tormentone delle Mamme-latte-macchiato di Prenzlauerberg, in quel periodo la stampa si era concentrata sull’odio verso i turisti, a cui veniva gentilmente fatto presente, tramite murales e stickers che non erano i benvenuti. Ogni mese era bene prendersela con qualche esponente di quelle categorie come “la generazione club-mate”, “gli artisti newyorkesi”, “gli studenti sudeuropei” o chiunque altro fosse sospettato di alimentare il famelico mostro della gentrificazione, pagando affitti più alti del dovuto, occupando zone prima degradate, aprendo locali e bar un po’ più tirati a lucido.

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Berlino era diventata the place to be, i berlinesi della vecchia scuola erano sgomenti ed io, devo ammetterlo, pur non condividendo l’aggressività rabbiosa rivolta contro qualsiasi tipo di cambiamento, ero un po’ preoccupata. La città, per lo meno ai miei occhi, era affascinante quanto uno stargate per una dimensione utopica. Si sentiva che qui la storia aveva avuto un altro corso, che luogo ed abitanti non erano stati contagiati da febbre globalizzatrice e smanie consumistiche come in altri posti. La capitale tedesca era un piccolo loophole europeo nel sistema capitalistico mondiale. Cose di cui avevo solo sentito parlare nei racconti degli amici più grandi, come movimenti underground che in Italia erano ormai morti o che la moda aveva fatto propri – corrompendoli e dandoli in pasto alle masse – qui erano ancora vivi nella loro forma originale. Berlino era cool perché era l’anti cool, poi è diventata glamour ed ha perso parecchio del suo fascino. Si é trasformata gradualmente in qualcosa di un leggermente meno unico, meno radicale, si stava lentamente facendo intaccare dalle tendenze importate, influenzare dal progresso ad ogni costo, che non sempre é sinonimo di miglioramento.

Un po’ come quando alle medie ti innamori della compagna di banco, che è un ragno secco, senza seno e con le scapole alate, però dolce e simpatica. Ti prendono tutti in giro perché ti piace proprio lei, ma a te non importa. Al liceo poi diventa una bomba atomica, fa stragi di cuori e si dimentica cos’è la gentilezza. Tu allora provi quel misto di orgoglio e amarezza, sei un po’ fiero di aver intuito il suo potenziale in tempi meno sospetti, ma sei anche triste perché lei non è più quella di una volta. Invece di indossare i maglioni smessi di sua cugina che la fanno sembrare un sacco di patate, inizia a mettersi top attillati; ha imparato a rifarsi le sopracciglia ed ora ha le mesh bionde in quei capelli che ramati erano bellissimi.

Così è Berlino, è giovane, è una venticinquenne fino a poco tempo fa deturpata da un muro, che si è appena scoperta sexy ed ha voglia di fare festa, di trarre vantaggio da qualsiasi situazione. Così chiudono le Kneipe ed aprono i cocktail bar, spariscono gli imbiss con il curry wurst e spuntano le hamburgerie. I calzini con i sandali rimangono solo perché ora sono di moda.

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Photo by Babewyn

Ma proprio quando ormai ti sei abituata ai tavolini dei café pieni di macintosh, quando se le commesse dei negozi vintage ai cui parli tedesco non ti capiscono non ti stupisci più, insomma una volta che é diventato normale avere a disposizione ogni angolo di mondo in una città, quando hai capito che ce n’é per tutti i gusti – che siano essi di tendenza e non – e anche quelli che pensavi essere in pericolo di estinzione sopravvivono, allora la stampa annuncia che ormai “Berlin is over”. Il Tagespiegel nel 2014 sentenzia che: “Berlino non è più la città più figa del mondo”, appena dopo che Rolling Stones informava che ormai il Berghain é un locale pieno di turisti , giusto per citarne un paio. Ogni volta che sento questa frase immagino i monatti di Manzoni che con i loro campanelli si aggirano mestamente per la città raccogliendo cadaveri lasciati in giro dalla peste. Solo che non si capisce mai se l’epidemia è l’essere o il non essere più alla moda. Molte testate nazionali hanno salutato la notizia con allegria, i gestori dei club si sono invece subito preoccupati dei futuri introiti, alcuni hanno tirato sospiri di sollievo, altri si sono sentiti presi in giro: avevano finalmente trovato una WG! La maggior parte avrà probabilmente alzato le spalle. Io insisto, come il fedele compagno di banco che si lascerà sempre intenerire nel vedere le ossa appuntite sbucare dalla schiena del suo amore delle medie, come mio padre che l’anno prossimo mi regalerà un braccialetto con i pendagli, così io continuerò a cercare ciò che per me rende Berlino la mia città, perché amore è resistenza, ed il primo amore non passa mai di moda.

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