Pour parler: la Filmhaus di Berlino impacchettata a dovere
di Margherita Teodori
Questa non vuole essere una lamentela all’italiana. Affatto. Giusto una constatazione – semplice, efficace e lineare.
Si parla della Filmhaus: il Museo del Cinema che si trova nel moderno complesso Sony Center, a Potsdamer Platz.
Labirintiche sale di specchi – curate nel minimo dettaglio – accolgono il visitatore e lo accompagnano attraverso gli esordi del cinema tedesco, quando i fratelli Skladanowsky inventarono il Bioscopio, il proiettore cinematografico, utilizzato per riprodurre i primissimi show di immagini in movimento nel novembre del 1895, battendo sul tempo il debutto pubblico del – tecnicamente superiore – Cinematografo dei cugini francesi; i Fratelli Lumière, con la erre moscia.
Procedendo nell’esposizione, arrivano gli anni dell’Espressionismo e dunque Murnau, Wiene e Fritz Lang col suo magistrale, nonché dal budget faraonico, Metropolis.
Un totale elogio alla produzione tedesca e alla sua settima arte, che di lì a poco, a causa della presa di potere del partito nazista, prenderà le vie dell’emigrazione.
Ecco che le potenzialità del cinema si trasformano dunque in potente metodo di propaganda e di scarso successo presso gli spettatori.
E qui cadde l’asino, perché con la fine della seconda guerra mondiale, il cinema tedesco viene letteralmente surclassato da quello francese e dalle produzioni italiane.
Ma la Germania non si arrende, ed ecco che – a partire dagli anni sessanta – butta l’occhio ai cugini francesi, e ispirandosi alla Nouvelle Vague dà vita al Nuovo Cinema Tedesco, e dunque un cinema impegnato che riflette la tormentata realtà contemporanea.
Nonostante lo scarso successo, la fioritura del cinema tedesco è però dietro l’angolo. Nel corso degli anni settanta e ottanta – “sforna” nuovi talentuosi cineasti. È la volta di Werner Herzog e Wim Wenders, un’esplosione di v doppie.
Spendiamo due parole per il cinema tedesco del nuovo millennio in cui la Germania arriva ad una riconciliazione tra approccio personale e successo commerciale, tanto che oggi il Festival Internazionale del Cinema, la Berlinale, distribuisce Orsi, di gran lunga più ambiti, rispetto ai nostri Leoncini (un tempo Leoni) di Venezia.
Ora – occorre ammettere, senza ombra di dubbio – che la Filmhaus di Berlino è una mostra interessantissima, sebbene il cinema tedesco non può qualitativamente superare il nostrano.
Torna in mente uno dei detti più illustri della cultura italiana – chi ha il pane non ha i denti.
Noi, in Italia, un museo del cinema ce l’abbiamo, quello di Torino, che parla e racconta del cinema di tutto il mondo, anche di quello italiano certo.
A Luglio dello scorso anno, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo del governo Renzi, Dario Franceschini, annuncia l’apertura del Primo Museo Nazionale del Cinema Italiano e afferma:
“In Italia abbiamo un bellissimo museo del cinema a Torino ma è un museo che parla del cinema di tutto il mondo, dai fratelli Lumière a oggi. – e aggiunge – Credo ci sia invece bisogno di un luogo attrattivo anche per i giovani, in cui si racconta la meravigliosa storia del cinema italiano. E un museo nazionale del cinema italiano non può che essere a Cinecittà, luogo dove il nostro cinema è nato. È un progetto su cui stiamo lavorando, costruendo il più possibile livelli di integrazione tra le diverse istituzioni.”
Bravo Dario – nonostante siamo appena entrati nel 2015, non stiamo qui a tirar fuori sempre la nota di demerito del nostro bel Paese e diciamo: meglio tardi che mai!
Questo per dire che la morale è poi sempre la stessa. Non è il potenziale che manca al nostro Paese, non pecchiamo certo di contenuti, che sono di fatto qualitativamente alti, ma poco valorizzati. Ora, va bene il tormentone che non ci sono soldi a sufficienza, ma resta il fatto che la grande storia del cinema italiano non appartiene (solo) a questi ultimi sventurosi anni di crisi. Ma ha invece inglobato tutte le suggestioni culturali e storiche del Paese dagli ultimissimi anni dell’800 ad oggi.
Lo stesso esempio vale per l’intero patrimonio artistico-culturale che si concentra in quel piccolo stivale del mondo e che pure oggi, sembra aver perso la luce. Un po’ come le Lucciole di Pasolini – a causa dell’inquinamento dell’aria […] sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più.
Ed invece ci sono, seppur fioche – costrette a nascondersi in virtù di un malcontento italiano che non sa parlar bene di sè. In questo senso la Germania ci è da esempio. Quando si fa visita alla Filmhaus di Berlino si viene accolti quasi fossimo ad Hollywood, eppure i tedeschi – sebbene abbiano dei master – non sono di certo dei primi della classe in materia di cinema. Poco importa – come a dire – Questo è quello che abbiamo, ed anche se il contenuto non è eccelso, tutto sta nel come viene impacchettato.
Eccola lì la Bellezza italiana, impacchettata male, malissimo.
Ma questa, è davvero solo una constatazione.