di Giampaolo Cufino
Isaac Nnanemal e Murat Haruna sono originari del Ghana, Ramin Qazizadeh e Elham Soltani dell’Afghanistan: odissee diverse, ma percorsi simili, che li hanno portati a recitare in uno dei migliori teatri tedeschi, il Thalia Theater di Amburgo, accanto a professionisti dello spettacolo e di fronte a un pubblico di una certa formazione. Il loro debutto nell’opera “Die Schutzbefohlenen” (I protetti), che prende ispirazione dalle Supplici di Eschilo, scritta dal Premio Nobel austriaco Elfriede Jelinek nel 2013, proprio in concomitanza con uno dei tanti drammi mediterranei, in reazione all’inerzia della politica. Spettacolo che li ha portati anche a Berlino, in occasione del Theatertreffen, iniziato il 1 maggio e che si concluderà il 17 maggio.
Ramin Qazizadeh si presenta schiettamente: “Sono Ramid, vengo dall’Afghanistan, da Herat”, dice in tedesco e racconta della fuga della sua famiglia prima in Iran e in seguito, pagando molti soldi, dell’arrivo in Germania.
Elham Soltani è figlio di un farmacista di Kabul, madre e fratelli uccisi dai talebani. Ramin frequentava una scuola coranica e proviene anche lui dal rifugio in Iran, suo padre era un Imam, anche lui è morto.
Prima a piedi, poi dentro furgoni e infine su una nave, attraverso la Turchia e la Grecia.
“Volevamo andar via”, dice Ramin Qazizadeh, che nel frattempo si è fatto crescere le trecce, al posto del Corano legge un copione e come mestiere vorrebbe riparare auto.
“Dovevamo andar via”. Via dalle bombe e dai guerrieri.
Isaac Nnanemal e Murat Haruna dal Ghana, un paese nonostante tutto politicamente stabile, si trovano tuttavia – in quanto cristiani – in conflitto con i loro padri musulmani. Fuggiti attraverso il Sahara alla volta della Libia di Gheddafi, a quei tempi un paradiso per gli immigrati africani.
Guadagnavano bene, raccontano, lavorando nei cantieri e nelle fabbriche. Poi Gheddafi diventa cattivo per l’Occidente, è quindi rovesciato dalle bombe nel 2011. Tripoli diventa per loro un inferno.
La via del ritorno è bloccata, la guerra civile infuria e i lavoratori di colore vengono stipati in barconi e spinti in mare. Il primo barcone su cui viaggia Isaac Nnanemals si capovolge, 42 passeggeri muoiono, tra cui la fidanzata nigeriana.
“Abbiamo perso tutto” aggiunge, mentre si racconta in una stanza del teatro Thalia.
Entrambi i ghanesi vengono soccorsi davanti a Lampedusa e portati in un centro di raccolta. In aereo e in treno riescono, due anni fa, a raggiungere Amburgo, ma inizialmente si ritrovano spersi alla stazione centrale, non capendo una parola di tedesco.
Tuttora preferiscono l’inglese per comunicare.
“Vivevamo dapprima per strada, poi la Chiesa del quartiere di St. Pauli ci ha donato asilo ed è proprio lì che sono nati i primi contatti con il teatro Thalia”.
L’entrata in scena sul palco è semi-legale, dato che pochissime di queste comparse posseggono regolari permessi di lavoro.
Il direttore del teatro, Joachim Lux, sostiene l’iniziativa sebbene le leggi permettano agli immigrati “tollerati” solo tirocini non pagati e la minaccia dell’espulsione è sempre dietro l’angolo.
Per Murat Haruna del Ghana è tutto chiaro: “Guardaci. Siamo forti, noi vogliamo lavorare”, afferma dietro le quinte.
“Non vogliamo essere assistiti dal governo”.
Per 300 Euro di assistenza sociale al mese i profughi aspettano, alloggiati in campi deprimenti, le novità burocratiche e intanto lavorano per poco o niente, indossando costumi a figura intera per il dramma teatrale.
La Chiesa non li può più ospitare, le autorità li tengono sotto osservazione, il teatro li ingaggia, sfruttando il lato esotico della faccenda.
La verità è una; in Afghanistan e in Libia la guerra ce l’abbiamo portata noi, altrimenti, forse, non ci avrebbero mai pensato a sostituire il Corano con Eschilo. Sono stanchi giustamente di guerre e guerrieri, allora è proprio dall’Occidente che dovrebbero fuggire.