Zen Circus: «Berlino e quella volta che incontrammo Nick Cave…»
C’è una prima volta per tutto, anche se ti chiami Zen Circus e da oltre vent’anni calchi i palchi più polverosi d’Italia, con una nutrita schiera di fan al seguito e un ventaglio di collaborazioni internazionali che la maggior parte delle band svezzatesi sull’italico suolo possono solo sognare.
Per i tre reggenti unici nonché cerimonieri del circo zen – Andrea Appino, Karim Qqru e Massimiliano Schiavelli, per tutti Ufo – il prossimo 7 aprile sarà un giorno da ricordare: quello dell’esordio a Berlino, dove si esibiranno nella bellissima location del Privat Club (Kreuzberg, Skalitzer Straße 85-86, comodissimo con la U1) per un concerto che anticipano così: «dieci corde percosse all’unisono, delle percussioni da battere, urla e strepiti, fischi alle orecchie».
In vista che gli Zen perdano la verginità berlinese (biglietti qui a 11,50 euro) abbiamo incontrato Appino, che a Berlino è già stato nel 2013 in versione solista (questo video lo testimonia), per qualche domanda rituale.
Nel 2001 pubblicaste un album con un titolo lunghissimo, Visited by the Ghost of Blind Willie Lemon Juice Namington IV. A quattordici anni di distanza, che cosa conservate degli Zen Circus di allora? Siete ancora visitati dagli stessi fantasmi?
APPINO: Assolutamente sì. Sin dagli esordi ci siamo sempre preoccupati di riportare alla luce i fantasmi della musica meno conosciuta e più sbilenca, quasi sempre di stampo americano. Veniamo dal folk marcio del Beck di “One foot in the grave” e dei Souled America, dal rock completamente allucinato degli Ween, dal punk non punk dei Minutemen e così via. Ancora oggi cerchiamo quelle note lì, quelle sensazioni, quel tipo di produzione.
Nel 2005 decideste di sperimentare con una lingua che fino ad allora non era stata la vostra prima opzione, ovvero l’italiano: una scelta che da quel momento avete perseguito con costanza, fino ad oggi. Come è avvenuto questo passaggio, a livello di songwriting? Potremmo aspettarci un nuovo ritorno all’inglese in futuro?
APPINO: Avvenne in modo molto naturale: sentivo forte l’esigenza di raccontare le storie di casa mia nella mia lingua e quando ho proposto i primissimi testi in italiano gli altri mi hanno subito appoggiato. Da lì in poi è diventata una droga e faccio fatica a fare a meno della mia lingua, anche se ultimamente ho viaggiato molto ed ho intrapreso molte relazioni umane in inglese. Credo sia tutta colpa dei cantautori italiani, che mi hanno cresciuto insieme alla musica americana di cui sopra. Ogni tanto qualche incursione nell’inglese (o il finlandese) la facciamo, vedi per esempio Metal Arcade Vol.1, ma non so quanto queste saranno totalizzanti nel futuro, davvero non lo so.
Gli Zen hanno sempre avuto una connotazione internazionale, fin dai tempi delle vostre scorribande con Brian Ritchie, Kim Deal e Jerry Harrison: poche altre band in Italia possono vantare questo genere di collaborazioni. Credi che la scena musicale italiana di oggi abbia bisogno di internazionalizzarsi, e pensate che ne sia in grado?
APPINO: Credo che la musica italiana debba semplicemente smettere di avere la puzza sotto il naso, che si tratti di artisti che cercano fortuna in casa o all’estero. Abbiamo esempi tangibili, vedi il successo internazionale dei Bloody Beetrots, il rispetto che hanno avuto gli Zu fuori dai patri confini, oppure alle novità come Mellow Mood (che stanno spopolando pure in Giamaica) o ancora Be Forest e His Clancyness. Io sono abbastanza onnivoro in fatto di pop, passo dalla canzone italiana che più italiana non si può a – per dire – la sperimentazione giapponese. Vado a vedere più concerti che posso, in Italia e all’estero. Invece qui vedo che la musica è divisa in due: chi pensa all’estero e chi pensa all’Italia, raramente i due mondi si uniscono e si confrontano. Anzi, solitamente si schifano vicendevolmente: “Ma cantate come mangiate!” dicono quelli “Ma che musica e che testi di merda!” dicono gli altri. Non è così che funziona secondo me, non è così che si creano le scene. Ma agli italiani, da sempre egotici, di fare le scene non è mai interessato molto e quindi va bene così. Ma finché funziona in questo modo avremo sempre una scena “cantautorale” che si rifà ai modelli stantii degli anni ’70 ed una scena “esterofila” che pur di fuggire dai cantautori si beve qualsiasi cazzata arrivi dall’estero. Questo per generalizzare ovviamente, nel particolare – per fortuna – ci sono un sacco di progetti che spaccano.
Quando suonasti a Berlino, nel dicembre 2013, mentre andavamo a visitare gli studi del Funkhaus mi raccontasti un aneddoto su quella volta che avete incontrato Nick Cave, uno che a Berlino ha lasciato per sua stessa ammissione un pezzo di cuore. Hai voglia di condividerlo con i nostri lettori?
APPINO: Eravamo in tour in Australia, più precisamente in Tasmania. Dopo il concerto di Nick Cave io ed Ufo eravamo nei camerini insieme al premier della Tasmania (?!), Brian (bassista dei Violent Femmes, al tempo nostro quarto membro onorario) e appunto Nick Cave insieme a Warren Ellis. Si parlava – anzi, parlavano – di questo after show in un qualche locale. Ad un certo punto siamo usciti, per cercare Karim che era scomparso. Brian ci raccontò che, appena noi ce ne fummo andati, Nick Cave gli chiese: “Ma chi sono quei Ramones messicani?”. Questa frase è rimasta nella nostra storia. In effetti indossavamo entrambi il chiodo d’ordinanza, ma eravamo ben più bassi e più scuri di quei maledetti pennelloni. Il bello è che Karim era fuori che ci aspettava e voleva andare a letto perché avevamo un volo alle 5.30 il mattino seguente. Seguì un mezzo litigio tipo coppia sposata e fummo gli unici a non andare al festino. Questi sono, nel bene e nel male, gli Zen.
A proposito di Berlino, hai qualche aneddoto o ricordo particolare legato a questa città?
APPINO: Io personalmente ricordo solo l’ultima volta che sono venuto a suonare da voi, anche perché la volta prima che venni a Berlino c’era ancora il muro e non ero ancora maggiorenne. Quelli del mio concerto furono due giorni molto belli, ma provenivo da circa 20 date di fila ed ebbi l’insana idea di suonare a Palermo il giorno dopo, dove infatti sono svenuto sul palco secco e duro. Stavolta mi sono premunito e me ne sto a Berlino a polleggiare un po di più; sai siamo anziani ormai, ma non dimenticatevi che old is the new young!
Che cosa possono aspettarsi i berlinesi dal concerto del prossimo 7 aprile?
APPINO: Un concerto degli Zen Circus: dieci corde percosse all’unisono, delle percussioni da battere, urla e strepiti, fischi alle orecchie.
Zen Circus live in Berlin
Privat Club
Skalitzer Straße 85-86
07 aprile 2015 h. 20
Biglietti
Evento Facebook
Sito ufficiale
Tutte le fotografie di questo articolo sono tratte dalla pagina Facebook ufficiale degli Zen Circus.