Imparare il tedesco con un insegnante di nome Bodo

© diepuppenstubensammlerin / CC BY-NC-SA 2.0
© Ahoova / CC BY-NC 2.0
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di Pseudonimo*

Pare che il tedesco non sia la più difficile tra le lingue in circolazione. Ma se è per questo nemmeno Jack Lo Squartatore è stato il più efferato serial killer della storia del crimine, eppure ciò non mi convince a chiedergli di farmi un massaggio plantare martedì prossimo.

Roba da non crederci: ho fatto praticamente di tutto nella vita per schivare il secondo principio di Kirchoff, poi mi basta emigrare un attimo e mi ritrovo obbligato a coniugare le desinenze degli aggettivi tedeschi. Fatica sprecata.

 

formula
Nell’immagine il primo principio di Kirchoff.. il secondo non ci entrava

 

Già, anch’io ho dovuto frequentare un corso di lingua. E la cosa più bella è che a conti fatti la grammatica coriacea di questo lessico anaffettivo manco è stato il maltrattamento peggiore che ho subito durante le ore di didattica.

Adesso vi racconto.

Avevo un insegnante che si chiamava Bodo.

Era basso, biondo, tarchiato e non proveniva di certo da una famiglia di copywriter: perché un nome così lo metti ad un anticalcare o al limite ad uno sgrassatore universale, mica ad un figlio.

Bodo era apparentemente un normale essere umano di nazionalità tedesca e quando lo conobbi faceva l’insegnante già da cinque anni,  molto probabilmente cioè da quando aveva scoperto di essere affetto da una rara malattia congenita: l’ottimismo. Un’infermità che gli consentiva il naturale svolgimento di tutte le sue funzioni vitali, ma che di contro inibiva l’andamento dell’ottanta per centro delle mie.

Ogni volta che lo vedevo entrare in classe: sorriso astrale e stessa immutata percentuale di euforia celeste. Decisamente oltre il limite consentito dalla polizia stradale e dalla chiesa protestante. Beato e gioioso a tal punto che pareva non aver mai preso la U8 in tutta la sua vita.

– Gut! Super! Schön! Wunderbar! Wunderschön! Ja! Natürlich! –

Con la sua energia positiva sotto forma di lessico, ci potevi inondare di luce le absidi di cinque diverse cattedrali.

Ricordo il primo giorno di scuola e l’olocausto annunciato delle presentazioni, quella specie di intervista individuale in cui ognuno di noi può reinventarsi un passato come meglio crede e che invece si conclude in un balbettio a denti stretti di informazioni biografiche assolutamente inutili per la ricerca contro il cancro.

– Ich wohne in Tempelhof seit fast zwei Jahre.

– Vivo a Tempelhof da quasi due anni.

E suvvia, anche oggi abbiamo salvato un bimbo dalla leucemia.

Orbene, a conclusione di questo supplizio d’ordinanza che in realtà era solo una specie di preview del percorso Sarajevo che ci attendeva, l’insegnante ottimista Bodo tirò fuori da un cassetto una pallina fucsia. Poi, muovendo il braccio a mo’ di amblimbletta, in base a meriti personali ancora da decifrare, decise di lanciarla al sottoscritto.

Nel frattempo, pronunciò indistintamente un suono che aveva tutta l’impressione di essere la prima lettera dell’alfabeto.

– “A” –

Il primo giorno di scuola il tuo insegnante di tedesco ti lancia una pallina fucsia e tu la prima cosa di cui ti vai a preoccupare è di coordinare i movimenti in modo tale da afferrarla al volo con una posa plastica, invece di ignorare l’irresponsabile stimolo esterno e di informare cortesemente il docente che non ti occupi più di palline fucsia volanti dal 1985.

Però che parata, cacchio.

– Embé? E mo’? Che devo fare adesso?

I trenta secondi di infarto sociale seguenti li utilizzai a farmi le tre domandine di cui sopra, ma anche e soprattutto a chiedermi se ero finito o meno nell’aula sbagliata: quella con i ritardati e con l’insegnante di sostegno.

C’erano in effetti indizi piuttosto compromettenti in giro: considerate che non mi ero manco ancora accorto né dell’unicorno gay stampato a pattern seriali sulla superficie della pallina stessa, né dei miei colleghi di corso i cui volti tradivano un quoziente intellettivo da medioevo oscurantista.

Un messicano localizzato in fondo a destra, in particolare, sembrava che fosse stato appena colpito con violenza da un pensiero filosofico di Mara Venier: bocca spalancata, pupille dilatate ed evidente disagio neuronale.

Io comunque ero rimasto con la pallina fucsia in mano e non sapevo ancora come usarla.

© diepuppenstubensammlerin / CC BY-NC-SA 2.0
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Si trattava senza ombra di dubbio di una di quelle situazioni in cui l’unica cosa da fare è alzarsi in piedi ed affermare con voce composta:

“Professore, guardi che io ieri ho inviato una mail al commercialista. Crede che può bastare a dimostrare che ho già da un pezzo superato la fase senso-motoria?”.

E invece le circostanze rimasero surgelate fino a quando il cerebrolabile che mi sedeva a fianco riuscì a farmi capire – gesticolando e producendo dei suoni lebbrosi – che adesso dovevo pronunciare la lettera “B” e lanciare la pallina ad un altro ritardato ancora.

Questo evento mi fece rapidamente calcolare che nemmeno io mi ero laureato a Harvard e che, se quella era davvero l’aula coi subnormali e l’insegnante di sostegno, allora forse mi trovavo nel posto giusto pure io.

Fino a quel momento avevo sempre pensato che l’inferno fosse un villaggio turistico della Valtur con animatori che improvvisano penose rivisitazioni teatrali del Macbeth cui sei costretto a partecipare per l’eternità, ma mi bastarono i primi trentacinque minuti di lezione A1.1 per visualizzare più precisamente la dannazione eterna: un’aula di minorati che si lanciano casualmente una pallina fucsia mentre fanno lo spelling, rende meglio l’idea.

E’ ovvio ragazzi, sto un po’ esagerando. Lo ammetto.

Anche perché, diciamocela tutta: superato il primo traumatico giorno mi abituai e cominciai ad accettare di aver ormai irrimediabilmente perso tutte queste posizioni biologiche nella catena alimentare. O meglio: non avevo alternative, visto che il mio insegnante Bodo continuava a trattarmi come una forma di vita poco complessa e ad umiliarmi con giochi di gruppo e domande cretine che avrebbero abbassato il quoziente intellettivo pure ad Umbero Eco.

E giusto per darvi ulteriori prove: a seguire, tratti da un corso di tedesco vero, ecco due nuovi illuminanti esempi di slealtà pedagogica.

Ieri sera è stata uccisa una donna. Io sono l’investigatore privato che deve indagare sul caso. Adesso voi venite uno alla volta alla lavagna e mi fornite un alibi per discolparvi.

Pietro comincia tu!

– Non posso essere stato io perché ieri sera non ho ucciso una donna. Ho ucciso un uomo.

Come potete notare, ad un certo punto ci ho pure provato a dare delle risposte mediamente argute al fine di fare salti di qualità nell’ambito dell’autostima organica, ma tanto Bodo se ne fotteva e continuava senza tregua l’infinita vessazione; esercitandosi, forse al fine di realizzare il sogno imprenditoriale di una vita: l’apertura del primo centro malessere della storia.

Adesso giochiamo in coppia. Tu Pietro in coppia con Faaris. Ognuno di voi dica all’altro cosa porterebbe con sé in un’isola deserta.

– Cosa porteresti con te in un’isola deserta Faaris?

– Il Corano.

– E tu Pietro? Cosa porteresti con te in un’isola deserta?

– Una barca per tornare su un’isola popolata.

Sei mesi così sono tanti, specie se non hai mai vissuto in un istituto di riabilitazione minorile.

E meno male che alla fine ci sono i tuoi compagni di classe, uno stock di umanità da outlet del basso Lazio di cui tu – ovvio – fai pienamente parte.

C’è la macedone coi foulard variopinti di stagione a mo’ di copricapo, che la vedi e vorresti in qualche modo sconfezionarle la testa per scoprire se si tratta di un Ferrero Rocher o di un Mon Chérie; l’ungherese di 19 anni che conosce già il tedesco a livello C1 e che frequenta solo per mostrare le sue nuove French Nails; c’è poi il messicano sordomuto che ha imparato a dire “Genau” ma sempre e solo nel momento sbagliato; c’è il russo bisessuale che fotografa con ogni possibile filtro Istagram i fiori sul davanzale della finestra e ciò mentre l’insegnante spiega la costruzione passiva nelle frasi secondarie; c’è la giovanissima mamma polacca che ha due figli brutti e a quanto pare un sacco di confezioni diverse di tinte per capelli nello scaffale del bagno; c’è la portoghese che viene in classe essenzialmente per soffiarsi il naso in una stanza più grande della sua; c’è la finlandese col corpo da modella e l’intelligenza sociale di Giacomo Leopardi e infine c’è l’italiano paranoico ossessivo che scruta tutto nei minimi dettagli e prende appunti per il futuro. Il sottoscritto.

*Pseudonimo*

pseudoQuando ero piccolo tutti avevano un sogno nel cassetto, e invece io ce l’avevo nel portaoggetti della Clio. In ogni caso non s’è ancora realizzato, quindi inutile parlarne. Vivo in questo pianeta da trentacinque anni e a Berlino da circa tre. Dal 2006 in poi ho peggiorato qualitativamente riviste su abbonamento (Progress, Progress Viaggi, All about Italy), webzine (Bazarweb, Fuoribusta), riviste settoriali (Cinemabendato, Wundergammer), cartacei satirici (Mamma) e testate nazionali (Il Fatto quotidiano). Nel 2009 la giuria specializzata del Premio Franco Solinas ha erroneamente giudicato interessante un mio trattamento cinematografico dal titolo “Guarda e passa”, segnalandolo altrettanto erroneamente ai produttori.
Per il Mitte curo la rubrica “Welche sauce?” dal sottotitolo giustamente poco pubblicizzato “Kebab e altri puntri di vista fuorvianti su Berlino”
Utilizzo le residue energie vitali nel tentativo di elaborare una maldestra poetica fotografica (www.pietroromeo.net). Attualmente sono inoltre impegnato a vivere la biografia di un altro e a non accontentarmi di quello che ho.

2 COMMENTS

  1. Mi hai fatto sentire meno sola :D Laurea in fisica, dottorato in fisica e neuroscienze, in Germania da 3 anni (prof. all’uni). Lo ammetto neanche io mi sono laureata ad Harvard ma non ho nessun problema con le leggi di Kirchoff ;-) Ho frequentato diversi corsi, esattamente come quello che hai raccontato tu, e credo di essermi sentita nello stesso modo :( B2 l’estate scorsa, ma ho ancora una lunga strada davanti prima di potermi sentire una persona ‘normale’ durante una conversazione in tedesco.

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