Museo Ebraico di Berlino: architettura della memoria
di Giulia Mischitelli
Il celebre museo ebraico (Jüdisches Museum) di Berlino, situato sulla Lindenstrasse a pochi passi dall’ex tracciato del Muro, con la sua struttura stabilisce una particolare relazione spaziale con la città ed è rappresentativo di un nuovo modo di commemorare i tristi eventi del passato tedesco.
Il museo ebraico, realizzato tra il 1992 e il 1999 su disegno dell’acclamato architetto statunitense Daniel Libeskind, nativo polacco e figlio di ebrei sopravvissuto all’Olocausto, presenta una particolare forma a zig zag per cui è stato spesso interpretato come la rappresentazione architettonica di una stella di David spezzata.
Un suggerimento dello stesso autore però permette di comprendere meglio il concetto che sta al cuore del progetto e il suo simbolismo. Come riporta lo storico tedesco Andreas Huyssen in The voids of Berlin, Libeskind invita a riflettere sul significato della costruzione nello spazio, e sul modo in cui questo si mette in relazione con la storia ebraica che viene rappresentata al suo interno, indicando cioè “tra le righe”, i rapporti fra il contenitore e il contenuto.
La pianta dell’edificio si articola infatti su tre linee che formano altrettanti corridoi sotterranei. I due più importanti, l’asse dell’Olocausto (o dell’oscurità) e l’asse della continuità (o della speranza), sono molto diversi. L’asse della continuità ha una forma fortemente irregolare ma continua, e conduce i visitatori alle sale espositive dei piani superiori. L’asse dell’Olocausto è invece dritto ma spezzato, e nel punto in cui interseca il precedente genera una serie di sottili spazi vuoti che da sotto la superficie del suolo si estendono lungo tutta l’altezza dell’edificio.
Se si legge “tra le righe” allora, è possibile vedere, come nella forma della pianta trovi espressione spaziale la relazione tra la storia tedesca alterata ma continua da una parte, e quella ebraica interrotta dall’Olocausto dall’altro. Nell’incontro di queste due storie, che si esprime nel punto tra le due linee, ha origine l’elemento base del vuoto che, con le sue discontinuità e fratture, costituisce la “spina dorsale” dell’intero edificio. Non vi è infatti nessun angolo, nessuna prospettiva all’interno del museo, da cui è possibile avere uno sguardo complessivo e omogeneo dell’ambiente.
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Come ci suggerisce la critica d’arte Naomi Stead in The ruins of history, la percezione della totalità viene impedita dalle interruzioni dei muri “spezzati”, dalle geometrie asimmetriche, dagli squarci profondi nel costruito che offrono uno sguardo sugli spazi vuoti inaccessibili. Altre spaccature irregolari nei muri poi producono delle finestre che, come buchi dalle forme stravaganti, aprono lo sguardo sulla città in modo sempre discontinuo e parziale.
Disorientante e dagli effetti vertiginosi, il museo ebraico di Libeskind è sovversivo per il tentativo, caratteristico dell’opera dell’architetto e ribadito dallo stesso nell’articolo-intervista Decontructing the call to order, di rovesciare le premesse ideologiche dell’architettura. Trattandosi di un museo di storia, e per di più della storia ebraica in Germania, lo spazio è stato concepito considerando il vuoto come assenza, la stessa assenza degli ebrei berlinesi.
Nella sua particolare frammentarietà, lo spazio è anche concepito come la rappresentazione della storia frammentata degli ebrei in Germania e dei tedeschi stessi, i quali non possono pensare alla propria tradizione culturale separatamente da quella ebraica. Contrariamente a quanto avviene con l’architettura tradizionale che “rassicura” lo spettatore con il suo ordine geometrico, con l’esperienza fisica del museo ebraico ci si immerge in una riflessione sul passato che non lascia speranze. I vuoti, che si traducono fisicamente come “abissi” visibili ad ogni livello nel punto d’intersezione tra le righe, segnalano un’assenza che non può essere superata, una frattura che non può essere rimarginata.
La “monumentale antimonumentalità” di Libeskind scuote la coscienza collettiva tedesca e, come sostiene Huyssen, è l’unica in grado di esprimere visivamente, in modo critico, la questione dell’identità nazionale e locale della Germania riunita. A maggior ragione se si pensa che “l’ora zero”, espressione utilizzata da Helmut Kohl per definire il 9 novembre 1989, fu in realtà coniata e utilizzata nel 1985 dall’allora presidente della repubblica Richard von Weizsäcker.
Nel suo discorso- appello al Bundestag, von Weizsäcker ribadì la necessità di mantenere viva la memoria degli eventi della seconda guerra mondiale per garantire la democrazia in futuro, e definì Stunde Null, l’ora zero appunto, l’8 maggio 1945, data della caduta del regime nazista e della fine della guerra.
In Ambiguous memory, la storica e sociologa Siobhan Kattago sottolinea come il governo guidato da Kohl dopo la riunificazione favorì in questo modo un nuovo approccio al passato tedesco, riflettendo l’intenzione di proseguire quell’atteggiamento che era tipico della Germania Ovest durante la guerra fredda, ovvero il desiderio di cancellare il proprio controverso passato per liberarsi del senso di vergogna che impedisce alla Germania di ripensarsi come una nazione “normale”.
La scelta di dare grande visibilità e risonanza mediatica alla celebrazione dell’anniversario della caduta del Muro, potrebbe essere rivista allora come parte di quelle strategie della politica della memoria che sono molto influenti nelle trasformazioni di Berlino. È inoltre ancora più sintomatica dell’insofferenza tedesca se si pensa che il 9 novembre è anche la data dell’anniversario della “notte dei cristalli”, la cui commemorazione è stata ostacolata fino all’inizio degli anni ’80 e che ancora oggi è evidentemente di scarso interesse pubblico.
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