A cena coi profughi: a Berlino si costruisce un “nuovo vicinato”
di Fabio Noio*
Non lo si indovina facile, chi viene a cena. Benché ci si sia registrati per mail e si abbia ricevuto un’idea di programma. Poi però le persone sorprendono lo stesso.
Fariza ha viso giovane ma fare già nonnesco: dopo aver cucinato, pone più attenzione ai bimbi in giro che agli ospiti. Viene dalla Cecenia, e a alla timidezza naturale somma una diffidenza maturata probabilmente per necessità.
È sola a Berlino: con i suoi due figli vi è giunta due anni fa dal confine polacco e ora vive in un casa per profughi nella Levetzowstrasse, a Moabit, dopo una parentesi in una Frauenhaus.
Una condizione che la accomuna a molte altre persone presenti a Berlino, ora sotto i riflettori dell’opinione pubblica, come nel caso della scuola Gerhart Hauptmann o di Oranienplatz, a Kreuzberg, ora meno. E comunque in continuo aumento e sempre in cerca di solidarietà.
L’iniziativa Neue Nachbarschaft Moabit ha incominciato a dare voce e volti ai profughi alloggiati nel quartiere. L’idea è quella di sedersi attorno a un tavolo, assaggiare i cibi locali cucinati dai rifugiati stessi e ascoltare le loro storie in presa diretta, senza interferenze.
Ritrovo sempre alla Neue Heimat, appropriata fin dal nome. Un primo incontro con persone provenienti dalla Siria, un secondo con al centro dell’interesse la Cecenia. In tavola ЧIепалгаш (tortino fritto di patate ripieno di ricotta) e жижиггалныш (una specie di pasta di contorno al pollo).
Dopo gli assaggi è già tempo dei racconti: «La guerra è terminata solo ufficialmente», confida N., un uomo che è riuscito a scappare con la sua numerosa famiglia solo grazie a coraggio e documenti falsi. Il motivo sempre gli stessi, violenza e povertà insopportabili.
«È sufficiente solo un sospetto di terrorismo per essere gettati in una spirale senza fine», aggiunge. E poi: «Molte zone della Cecenia non sono neppure state ricostruite dopo la guerra. Tutti i soldi sono stati spesi a Grozny, la capitale, nel resto del Paese molte famiglie non hanno piú casa e sono sistemate in campi provvisori. Si può sperare solo in un lavoro in un cantiere, ma ti pagano solo il primo mese, poi basta».
Anche per chi ha studiato, come Fariza, la vita non offriva molte possibilità in patria. Come mamma lo Stato le dava un assegno mensile di 120 rubli, buoni a pagare nemmeno un chilo di carne. “Come lavoratrice invece è stato mio zio a sbarrarmi la strada. Ha detto che no, non potevo: in quanto donna”.
Ora questa nuova avventura a Berlino, questo nuovo inizio in una lingua e una cultura straniere. Con vicini di quartiere attenti, pronti ad ascoltare e d’ora in poi ad aiutare. Non tutti, ovvio. Ma quelli che erano lí hanno provato a dire баркалла, grazie, ricevendo in cambio un sorriso.
* Fabio Noio vive e scrive a Berlino. Il pauperista (Gwynplaine) è il suo primo romanzo.