Arte e Cultura

Musica come destino: intervista alla compositrice Lucia Ronchetti

Lucia Ronchetti (© Stefano Corso)
Lucia Ronchetti (© Stefano Corso)

di Cinzia Colazzo

Incontro Lucia Ronchetti online il giorno prima del suo arrivo a Berlino, dove è invitata con l’opera Lezioni di tenebra per il festival Infektion! Festival für Neues Musiktheater, prodotto dalla Staatsoper. Mi racconta del suo lavoro con grande precisione e vivacità. Rimango colpita dall’intensità del suo volto e dalla capacità di raccontarsi.

C.C. – Lucia Ronchetti, dove si trova in questo momento?

L.R. – A Roma, e nel pomeriggio volo a Berlino per le prove.

C.C. – Anch’io attendo di vedere la rappresentazione della sua opera domani, e prima ho voluto proporle un colloquio per conoscere i retroscena: come ha fatto ad arrivare alla Staatsoper di Berlino?

L.R. – Lezioni di tenebra è un lavoro che ho composto nel 2010 su commissione del Konzerthaus di Berlino. Jens Schubbe, il drammaturgo di questa prestigiosa istituzione, mi aveva proposto di presentargli una nuova opera, e io ho voluto lavorare su Il Giasone di Francesco Cavalli, la mia opera preferita, uno dei risultati più sorprendenti del barocco italiano. Nutrivo comunque l’intenzione di lavorare su questa partitura, che è stata la prima opera proposta dal Teatro San Cassiano di Venezia ad un vasto pubblico, nel 1649. Il mio lavoro si è basato su un’analisi compositiva del manoscritto de Il Giasone. Di quest’opera ci sono rimasti tredici manoscritti in tutta Europa. Attraverso l’analisi di questi manoscritti si può risalire al disegno completo dell’opera, che virtualmente durava cinque ore. Io ho lavorato sul manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, e ho selezionato secondo la mia intenzione drammaturgica alcune parti per arrivare a un lavoro della durata di un’ora.

C.C. – Nel suo lavoro di selezione ha dovuto dunque sacrificare molte parti di questa straordinaria opera.

L.R. – La mia analisi ha tenuto conto sia di ciò per cui potevo riconoscermi nella musica di Cavalli, sia della connessione fra la musica di Cavalli e il libretto di Cicognini. Mi interessa innanzitutto la relazione fra musica e testo. Cicognini e Cavalli hanno ideato questa straordinaria soluzione in cui Medea e Giasone si amano nel buio per quasi due anni, senza vedersi. L’amore vissuto al buio sembra rendere la relazione molto più intensa. Tutti gli altri tramano contro questo rapporto: il re Egeo, sposo di Medea, la moglie di Giasone, Isifile e i loro relativi aiutanti. Nel momento in cui Giasone e Medea rinunciano al buio per ritornare al destino designato, contro di loro si scatenano gli eventi. L’opera mette in luce come solo nelle tenebre, nascosti al mondo, i due amanti possano comunicare, concedersi la felicità. Nel momento in cui riemergono dal buio e cercano di prevedere gli eventi per riprendere in mano i loro compiti, nel momento in cui rinunciano a “toccar con gli occhi e rimirar col tatto”, si scatena contro il loro amore e contro la loro missione il destino, che nell’opera è espresso nella forma di quartetto vocale – quartetto di ombre –, che interpreta inoltre la voce di Besso, il capitano della guardia che obbedisce agli ordini ciecamente.

C.C. – Certamente il libretto intende dare un ammonimento…

L.R. – Sì, e per questo nel mio lavoro di sintesi da un dramma per musica di cinque ore a un’opera da camera di un’ora ho scelto quelle parti che parlano più chiaramente della cecità umana.

C.C. – Forse può dirmi qualcosa del titolo della sua opera.

L.R. – Il titolo originale sarebbe stato Toccar con gli occhi e rimirar col tatto, ma Jens Schubbe voleva un titolo più corto, e certamente Lezioni di tenebra indica più incisivamente l’insegnamento che Giasone riceve nel corso dell’opera: rinunciando alla visione che nella tenebra illuminava altri sensi, tutto va diversamente rispetto alle previsioni e alle aspettative altrui.

C.C. – Molto interessante è una soluzione drammaturgica che lei ha voluto per la sua opera, e che è di rara realizzazione: entrambi i cantanti (in questo caso Olivia Stahn e Daniel Gloger) interpretano ognuno tre ruoli.

L.R. – Esattamente, è come lo schieramento di due triadi. Per i cantanti è una grandissima prova, devono muoversi nell’estensione di tre registri e spostare l’intenzione interpretativa da un personaggio all’altro a volte anche subitaneamente.

C.C. – Lo spettacolo di domani è tutto esaurito. Immagino che debba essere per lei una grande soddisfazione.

L.R. – Io sono onorata del fatto che un’opera che è stata prodotta dal Konzerthaus, in collaborazione con la Salzburg Biennale e il Festival Contemporanea del Parco della Musica di Roma, sia già ripresa in una nuova produzione da un’altra istituzione berlinese, la Staatsoper Unter der Linden. Per me è stata un’esperienza importante vedere come a partire dalla mia partitura i due registi, Matthias Rebstock per il Konzerthaus e Reyna Brums per questa seconda produzione, abbiano reso diversamente la mia scrittura. Quello che amo nel teatro musicale è che una partitura, che è un oggetto neutro, l’unico materiale che il compositore consegna agli interpreti, possa portare in sé così tante interpretazioni e poi reggere le ulteriori analisi e scelte da parte di un team artistico e di produzione. La mia scrittura è già una interpretazione di un’opera precedente, e poi registi ed esecutori apportano ancora la propria.

C.C. – Posso chiederle perché sta lavorando in Germania?

L.R. – Questa è la mia seconda opera di cui viene fatta una seconda produzione in Germania. In Italia non si arriva facilmente a una seconda produzione. Le grandi istituzioni tedesche amano portare in cartellone nuove opere, ma anche realizzare seconde produzioni della stessa opera, anziché chiedere ai compositori un nuovo lavoro. C’è un enorme sforzo dietro all’idea di ripresa delle nuove opere. Il compositore ha l’occasione così di riaprire un vecchio progetto per farne una nuova versione: è come se il pezzo ricevesse una nuova vita.

C.C. – E in cosa la sua esperienza in Italia è stata diversa?

L.R. – In Italia c’è sempre il gioco della nuova produzione, della prima esecuzione. In Italia non solo manca la seconda produzione, ma spesso manca proprio la prima produzione di una nuova opera. Nella stagione 2013-14 c’è stata una sola nuova opera prodotta in tutte le stagioni di tutti gli enti lirici italiani, un lavoro di Andrea Molino per il Comunale di Bologna. La seconda produzione, può immaginare, è ancora più improbabile. Non c’è spazio per nessuno, è una situazione molto distruttiva: come compositori si deve subire l’indifferenza delle istituzioni.

C.C.– In Germania ha ottenuto un diverso riconoscimento.

L.R. – Sono contenta di aver tentato di presentare i miei lavori in Germania. Qui i drammaturghi fanno un enorme lavoro di ricerca, di attento ascolto e di analisi del repertorio che si va a creare nel panorama europeo contemporaneo. Sono dei grandissimi appassionati del teatro musicale contemporaneo e il compositore sa che se è stato chiamato è perché al drammaturgo interessa la partitura, non per motivi politici o personali o per un dovuto rinnovamento del cartellone.

C.C. – Ha trovato dunque delle condizioni più favorevoli.

L.R. – Sicuramente più serie, ma non più facili. I drammaturghi sono più seri nel loro lavoro di ascolto, ma anche i giornalisti sono più attenti. Per una mia opera in Germania per esempio ho ricevuto solo recensioni negative. Il compositore che viene invitato a produrre una nuova opera si espone a recensioni positive e negative, e di fronte a queste ultime deve trovare la forza di reagire. Il quadro che descrivo è comunque quello di una situazione seria e fertile, che rende vitale il lavoro del compositore.

C.C. – A parte Lezioni di tenebra, a quali progetti sta lavorando?

L.R. – Sto finendo di comporre la mia prima grande opera per il Nationaltheater di Mannheim. È un plot narrativo, ideato con lo scrittore Ermanno Cavazzoni, di cui non posso anticipare molto. Posso dirle che si tratta di un’avventura in una biblioteca notturna.

C.C. – Di nuovo le tenebre.

L.R. Esatto! Per me è l’esperienza più importante della mia carriera compositiva. Questo prestigioso teatro tedesco ha scommesso su di me e io sto lavorando da tanto tempo a questa partitura. Ora mi sembra incredibile di essere arrivata al termine di un lavoro così impegnativo. Sono entusiasta, ma consapevole di espormi al pericolo di una reazione negativa del pubblico. L’opera ha una lunga fase in cui è solo scrittura e lavoro teorico. Quello del teatro musicale è un grande meccanismo fatto anche di fortuna e di magia, un’alchimia che si deve creare fra tutti i soggetti coinvolti, il compositore, i produttori, gli interpreti, e il pubblico che accoglie l’opera. Il momento di verifica davanti al pubblico è un approdo di energie e tensioni che può generare una grande gratificazione.

C.C. – Come è accaduto che abbia deciso di tentare la fortuna in Germania?

L.R. – Il momento decisivo è stato quando ho vinto il premio DAAD, nel 2005. Questo importante premio mi ha offerto la possibilità di risiedere per un anno in una bellissima casa vicino a Halensee e mi ha messo a disposizione uno stipendio perché potessi dedicarmi interamente al mio lavoro. Da questo premio e dal soggiorno a Berlino sono nate moltissime opportunità per il mio lavoro. Negli ultimi anni ho lavorato anche a un’opera da camera per solisti e ensemble da camera, della durata di un’ora, quindi in forma più ridotta, per la Semperoper di Dresda. Si trattava di riprendere l’opera L’impresario delle Canarie di Pietro Metastasio nelle realizzazioni di Giovanni Battista Martini e Domenico Sarro. Mi hanno chiesto di comporre un nuovo intermezzo da inserire nell’opera, e ho giocato con la tradizione barocca dell’intermezzo, inserendo un’opera seria all’interno di un’opera buffa, interponendo la mia versione da camera della Didone abbandonata a L’impresario delle Canarie. Due progetti diversi per due grandi istituzioni tedesche. Sono molto grata ad entrambe.

C.C. – Posso chiederle quando e come ha scelto di diventare compositrice?

L.R. – Sono nata in una triste periferia di Roma in una vasta famiglia con pochi mezzi. In casa non c’erano libri. Ma il piccolo appartamento della porta accanto era abitato da un anziano compositore, Mario Bevilacqua, e dalla moglie Helene, una raffinata e fragile signora svizzera che aveva abbandonato tutto per quell’allora giovane e affascinante musicista italiano. Si trovavano in miseria e lui riparava orologi antichi per vivere. Mi hanno quasi adottata, ricordo che passavo tanto tempo a casa loro con una delle mie sorelle, Paola, che è musicologa e soprano. C’erano molti libri in tedesco, in caratteri gotici e io ne ero affascinata. Loro mi hanno insegnato la musica, sempre con divertimento e gioco. Avevano tanti strumenti che abbiamo suonato liberamente, senza alcun approccio “accademico”, e questo atteggiamento mi ha permesso di penetrare il mondo musicale in un modo completamente libero e informale. Era il linguaggio con cui potevamo comunicare, era la cosa che semplicemente facevamo insieme. Non posso dire con certezza che cosa cantassimo, ma non era musica popolare. Ho scoperto che esisteva qualcosa come la musica popolare molto più tardi. C’era anche l’aspetto degli orologi: nella casa si trovavano tante vecchie macchine per pulire gli orologi che emettevano strani rumori e strani ritmi. Ricordo di essere stata affascinata da tutti questi ingranaggi e dal lavoro di precisione sugli orologi antichi. È stata per me una iniziazione alla sensibilità per il suono, per i rumori, non solo per la musica formalizzata. Quando a sedici anni ho ascoltato alla radio Aura di Bruno Maderna, ho pensato che volevo fare la stessa cosa, comporre in quel modo. E ho scoperto di essere stranamente abbastanza preparata per cominciare a studiare composizione in conservatorio. Per me non è stata traumatica l’entrata nel mondo accademico, degli studi formalizzati, ho studiato con una intensità che mi faceva dimenticare tutto il resto, le difficoltà e le preoccupazioni. Invece è stato molto difficile il periodo dopo la fine degli studi in conservatorio. Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua: il conservatorio mi aveva tenuto in una sospensione astratta, senza aiutarmi a transitare nella realtà del lavoro artistico.

C.C. – Almeno dopo i primi riconoscimenti, la sua famiglia d’origine ha compreso la sua vocazione?

L.R. – (sorridendo) I miei genitori speravano che i figli diventassero dei professionisti, avvocati, medici. Quella del musicista non era una professione praticabile. Comunque non avrebbero potuto aiutarmi.

C.C. – Ma la musica era forse il suo destino, se ha trovato quasi dei genitori adottivi che le hanno parlato il suo linguaggio.

L.R. – Non credo, è stata piuttosto una volontà di dedicarmi al lavoro che mi sembrava il più complesso e irrealizzabile e che mi aveva protetta nei momenti difficili. Ma è vero che la moglie di quel mio primo maestro aveva quasi smesso di parlare, credo per il dolore di una esistenza di stenti, insegnandomi che ci si può esprimere in un altro modo. Di lei non ricordo un parlare diretto: comunicava attraverso i suoi gesti antichi e composti, con il viso, con gli sguardi e attraverso la musica. È possibile che questo silenzio ricco di intenzioni abbia avuto una forte influenza sul mio immaginario musicale. In effetti è vero che lunghi silenzi caratterizzano alcuni miei rapporti con persone care e che sprofondo in una forma di silenzio se qualcosa non va bene in una relazione e che i miei silenzi sono quasi eterni. Tutti i giorni lavoro alle mie partiture nel silenzio totale e non sento alcun bisogno di interromperlo se non quando sono sfinita dal lavoro.

C.C. – Com’è la sua vita al momento?

L.R. – Divisa fra tre città! Abito a Roma, ma sono docente di Composizione al Conservatorio di Salerno e ho una casa a Berlino dove risiedo molto spesso. Devo dire che sono felicissima della mia casa nel quartiere Mitte, mi sento me stessa in questa parte di Berlino, intensa, silenziosa e carica di avvenimenti del passato che hanno lasciato tracce affascinanti.

C.C. – C’è ancora una domanda che mi sta a cuore porgerle. Come pedagoga e musicista mi accorgo di una certa ansia dei genitori rispetto ai propri figli, che si esprime in una stimolazione sempre più precoce, nel timore di non vedere un talento presente o di non attivare un potenziale disponibile, prima ancora che l’eventuale dote si manifesti. Lei che ha avuto la musica nel suo destino, tanto che le è venuta incontro attraverso la porta accanto, e che è arrivata alla Staatsoper di Berlino partendo dalla periferia romana, come può commentare questa smania di esposizione all’istruzione musicale formalizzata?

L.R. – Penso che sia importante avere un primo contatto con la musica che passi attraverso un ascolto attivo e che la formazione non sia accademica nelle prime fasi. Forzare un pensiero musicale è sicuramente inutile e contro produttivo. Ma se una persona decide di voler fare il compositore, allora dovrebbe poi affrontare uno studio serio e profondo sulla scrittura musicale storica e tradizionale per poter esplorare il linguaggio da cui trarre uno stile personale. Senza libertà nell’immaginario musicale e senza una solida formazione tecnica, come compositori si resta fortemente limitati nelle proprie intenzioni.

C.C. Grazie Lucia Ronchetti, attendo con ansia di poter assistere alla rappresentazione!

Ci salutiamo ripromettendoci di incontrarci il giorno seguente nella caffetteria della Werkstatt nello Schiller Theater. Lei mi dice vivacemente di non andare via da teatro senza passare a salutarla per bere qualcosa insieme. Io la ringrazio per l’intervista, che per me è stata una lezione sulla tenebra – la tenebra che avvolge le grandi prove del destino e sul dono della musica, che tutto può comunicare e illuminare.

Il sito ufficiale di Lucia Ronchetti

 

 

 

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