Ai bordi di Berlino, lì dove c’era il Muro “circolare”
di Matteo Tacconi e Ignacio Coccia
In occasione del venticinquesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino abbiamo percorso il tracciato della cortina di ferro. Il crinale, vale a dire, che al tempo della guerra fredda separava in due la Germania, Berlino e l’intera Europa. Questa linea, lunga duemila chilometri in tutto, si distende dal Baltico all’Adriatico. Dal punto più a nord del vecchio confine tedesco-tedesco a Trieste.
Ora vorremmo che questa esperienza, che racconta giornalisticamente e fotograficamente di cose e vite su frontiere, che oggi sono frontiere aperte, diventasse un libro. Il titolo sarà “Verde cortina“, perché su questi confini, un tempo presidiati militarmente, si snoda oggi una spina dorsale di parchi e foreste che congiunge il Baltico all’Adriatico. Il canale che stiamo usando è quello del crowdfunding: qui la pagina della campagna. In pratica, si può prenotare da ora il libro, per riceverlo a luglio in caso il crowdfunding vada a buon fine. In caso contrario si è rimborsati automaticamente.
Di seguito vi proponiamo un estratto del libro.
Ai bordi di Berlino, lì dove c’era il Muro “circolare”
BERLINO – Non c’è una sola nuvola a fare da filtro ai raggi del sole. Scendono giù in picchiata e rimbalzano, facendole luccicare, sulle acque dell’Havel. Veniamo dal checkpoint Alpha, un paio d’ore di strada. Sulla sponda occidentale di questo fiume, seguendo la direzione di marcia, si sdraia l’ultimo lembo della città di Potsdam, capoluogo del Brandeburgo. Sull’altra inizia Berlino. In mezzo, il ponte di Glienicke. È un groviglio d’acciaio che tende al verdognolo e dà un chiaro senso di robustezza. Lo oltrepassiamo, entrando nella capitale tedesca.
Mappa alla mano, Berlino non sta sulla cortina di ferro. Ma non si può pensare alla seconda senza riferirsi alla prima. Berlino, città divisa, era la fonte legittimante della stessa cortina. Senza tenere conto che il Muro, spaccandola in due, creava a sua volta una cortina all’interno del tessuto urbano.
La grande barriera non seguiva solo l’asse nord-sud, contrapponendo i due polmoni della città. Avvolgeva l’intera Berlino ovest, in quanto exclave della Germania di Bonn. Segregandola.
La cinta esterna era lungo poco più di cento chilometri e presentava alcune interruzioni lì dove a marcare il confine c’era l’acqua, anziché la terra. È il caso dell’Havel, che in questo tratto procede irregolarmente. Il corso è scandito da dozzine di strozzature, che creano ampie sacche d’acqua. A ognuna è stata data la dignità di lago. In ognuna passava il vecchio confine.
Le motovedette della Germania comunista vigilavano giorno e notte, tante le volte qualcuno, con affannose bracciate e solo dopo essersi lasciato alle spalle le fortificazioni sulla sponda orientale, cosa non certo agevole, avesse tentato di giungere dall’altra parte.
Il ponte di Glienicke è un luogo simbolo della guerra fredda. Sul suo asfalto, in tre occasioni, il blocco occidentale e quello orientale si scambiarono le spie che avevano rispettivamente catturato. L’ultima volta, nel 1986, i sovietici liberarono il dissidente Anatoly Borisovich Shcharansky. Emigrato successivamente in Israele, diverrà più volte ministro.
Il ponte, proprio in virtù degli scambi di agenti, ha ispirato un’infinità di scrittori. Quando d’inverno è ammantato di nebbia restituisce molte suggestioni da guerra fredda, si dice. Oggi comunque è una giornata splendida.
I berlinesi sono usciti a prendere il sole in faccia e sugli argini dell’uno e dell’altro lato dell’Havel, costeggiati da piste ciclabili e parchi, c’è solo tanta normalità. Famiglie in gita, gente che spinge sui pedali, pensionati che passeggiano, turisti sui battelli che risalgono il fiume. Anche volendo fare uno sforzo, non c’è mezza traccia del secondo ‘900.
L’ordinarietà domina la scena anche nella vicina Steinstucker, fazzoletto di terra che all’epoca della guerra fredda era amministrato da Berlino ovest, pur trovandosi nel territorio di Berlino est. Fu a lungo isolato e solo negli anni ’70, dietro soldi e piccoli aggiustamenti territoriali, la DDR permise la costruzione di una strada che collegava l’abitato alla parte occidentale della città.
Oggi Steinstucker è un grazioso agglomerato di villini e casette di legno, di quelle dove i berlinesi trascorrono il weekend.
Più a est, nel quartiere di Lichtenrade, si materializza il colpo d’occhio tipico di molti dei segmenti terrestri della cinta esterna. Il confine tra Berlino e il Brandeburgo sancisce un trapasso brusco da città a campagna. Finisce Berlino e comincia una tavola piatta, di terra e d’erba, che si perde a volte fino all’orizzonte.
Dove passava il Muro ci sono piste ciclabili e boschetti. Ogni tanto si nota un fossato o una lingua polverosa. È quel che resta della cosiddetta striscia della morte, il corridoio creato dalle due barriere parallele, poste a distanza di qualche metro l’una dall’altra, che componevano il Muro. Lì in mezzo molti fuggiaschi sono stati colpiti a morte.
Il muro circolare continua, continua e continua, tra sentieri, specchi d’acqua, campi, radure e selve. Da una parte il versante berlinese, con la dimensione urbana. Dall’altra la pianura brandeburghese.
L’ultima visita è a Buckow, dove la Kölner Damm termina all’ingresso di una discarica e a qualche metro dai binari ferroviari. La storia di questo centro di smaltimenti rifiuti è tutta da raccontare.
Al tempo del Muro Berlino ovest, non avendo retroterra, era costretta a scaricare la sua spazzatura appoggiandosi alle discariche dell’est. «C’erano ogni giorno lunghe file di camion», ricorda Werner, un signore sulla settantina, spiegando poi che durante i lavori che hanno trasformato Potsdamer Platz da uno spiazzo vuoto a uno dei simboli del laboratorio architettonico berlinese, i detriti venivano caricati sui treni e poi trasportati alla discarica, dove c’è una stazioncina.
Oggi la struttura è gestita da un’azienda privata, la Hafemeister. «Fanno discreti soldi», dice Werner, aggiungendo che le autorità hanno chiesto alla direzione del gruppo una contropartita, in cambio del diritto a tumulare i rifiuti sotto la terra, lì accanto al quartiere.
La Hafemeister ha dovuto conficcare nella zona centinaia e centinaia di alberi, a proprie spese. Ne è nata una selva, popolata da cerbiatti. Se ne vede qualcuno che saltella in lontananza, nella vasta spianata del Brandeburgo.
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