Sei di Kotti se…
di Joseph Pearson
(da Needle Berlin)
Kottbusser Tor, il centro di quello che un tempo era l’SO36, il distretto più estremo di Kreuzberg, è conosciuto affettuosamente come “Kotti”. Il Kiez circostante, composto da case di immigrati, bar punk, club gay e ristoranti halal contiene, seppur in scala ridotta, un concentrato di contrasti. E ha qualcosa da dire sul multiculturalismo e la tolleranza in Germania.
Il complesso di appartamenti sul lato nord della piazza, il Neue Kreuzberger Zentrum (NKZ), costruito negli anni ’70, è popolato in maggioranza da famiglie provenienti dalle regioni più povere della Turchia. La sua facciata è coperta da antenne paraboliche, a dimostrazione dei legami culturali e linguistici con la madrepatria. È un segno, questo, di isolamento dalla vita tedesca.
Gli edifici cadono a pezzi, sono pieni di infiltrazioni d’acqua e freddi d’inverno; esattamente come i lavoratori immigrati arrivati qui negli anni sessanta e settanta – che sarebbero dovuti ritornare in patria, ma non se ne andarono più -, questi edifici non erano stati costruiti per durare a lungo.
Nelle ultime settimane, sulla stampa tedesca si è discusso abbondantemente del fatto se il multiculturalismo in Germania abbia, come ha spiegato la Cancelliera Merkel, “completamente fallito”. Merkel non intende dire che gli immigrati non siano i benvenuti, piuttosto che non si siano sufficientemente integrati.
È vero, i bambini che vivono in questi Siedlungen, i quartieri dove risiedono gli immigrati, parlano un tedesco con un forte accento e frequentano scuole quasi esclusivamente riservate a turchi e/o libanesi. Vivono, soprattutto, in nuclei familiari tradizionali che ricordano quelli dell’Anatolia, con le donne che indossano il velo e stanno a casa, più di quanto potremmo aspettarci in una città urbanizzata dell’Europa Settentrionale.
Gli immigrati di origini turche non vengono chiamati “tedeschi”: sono “turchi” o “di origine turca”. 88mila persone vivono in Germania senza un permesso di residenza e alcuni di quelli che sono nati qui temono di essere deportati nella “nazione di origine”, in cui non anno mai vissuto.
Il dibattito sulla stampa, tuttavia, pone troppa enfasi sulla separazione religiosa degli immigrati e sulla loro mancata integrazione, invece che sugli antiquati concetti di razza e nazione in Germania, che rappresentano ancora l’opinione della maggioranza. Le inflessioni linguistiche dei migranti hanno pochissimo valore sociale e l’idea di scuole bilingui ha incontrato resistenze. Non si discute abbastanza sul prolungamento del diritto di cittadinanza su base razziale derivato dal novecento tedesco, o del debito verso il pluralismo. Oggi, agli immigrati viene chiesto di integrarsi, ma quando sarà loro permesso di farlo?
Ritengo che Kotti sia la parte di Berlino che più assomigli a New York. Non è solo per i fioristi aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, per i palazzi di sei piani che mi ricordano i caseggiati nel Lower East Side o per gli hipster che si atteggiano da ribelli. È anche il modo in cui qui comunità molto diverse tra loro coesistono con discreto successo.
Di ritorno verso il Neue Kreuzberger Zentrum, cammino attraverso una serie di edifici slegati, supermercati, casinò e kebab che popolano le viette. Ci sono piccoli negozi aperti da bosniaci, “tedeschi”, turchi e curdi. C’è un bar gay-friendly al piano superiore, vicino ad un’agenzia di scommesse, e poco più sotto c’è uno stravagante bar gay chiamato Möbel Olfe (dal negozio di arredamento che c’era prima).
Sono colpito dal fatto che il bar gay non abbia alcuna finestra rotta. Per un momento non riesco a credere che l’omosessualità venga accettata in circoli di immigrazione tradizionale come questa, ma so che esiste almeno una coesistenza pacifica. Così, Kotti porta con sé quella sensazione che si trova nei centri cosmopoliti del mondo – Londra, Toronto, il Queens – dove la differenza non è un problema, è semplicemente un fatto.
Qui, però, ti senti accerchiato da queste diroccate torri di cemento, i vicoli sono claustrofobici, hai la sensazione di essere a New York ma ti rendi conto che questi immigrati non hanno avuto la stessa promessa ricevuta dai loro omologhi nel Nuovo Mondo. Un posto come questo dovrebbe essere il luogo in cui puoi dare vita al tuo “sogno di migrante”, prima di cogliere la grande occasione, o prima che i tuoi figli comincino a lavorare – un luogo in cui non importa da dove vieni, o quale accento abbia il tuo tedesco.
Questo è il luogo dove le luci scintillano sui vetri. Quando esci di casa, sai dove il tuo mondo finisce. Vieni da Kotti.
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The Needle è il blog di Joseph Pearson, autore e storico canadese residente a Berlino. Creato nel 2008 sotto il nome di Berlin Memory Blog, da allora è cresciuto raggiungendo circa 50mila pagine viste mensili (10/13). Scritto in lingua inglese e aggiornato ogni sette giorni, è stato votato tra i migliori blog e siti su Berlino. Potete seguire The Needle anche attraverso Facebook e Twitter.
Joseph Pearson è uno scrittore, storico ed esperto locale di Berlino, interessato in come il passato influisca sulle questioni del presente. Nato in Canada da una famiglia Italo-Canadese, ha frequentato il liceo presso il Collegio del Mondo Unito a Duino (Trieste) e svolto un dottorato alla Università di Cambridge, nel Regno Unito. Si è spostato a Berlino da New York city, dove ha insegnato alla Columbia University, ora insegna alla New York University-Berlin. Ha lavorato nell’ufficio stampa della Commissione Europea, dello United Nations Development Program in Central Asia, è stato corrispondente da Berlino per il quotidiano nazionale The Globe and Mail, ha lavorato come saggista e blogger per il Teatro Schaubühne e partecipato come esperto di storia per alcuni documentari, tra cui National Geographic. Potete contattarlo a questo indirizzo: needleberlin [AT] gmail.com