Primavera berlinese: “Qui giace un giovane italiano”

[© Michael Fielitz on Flickr / CC BY-SA 2.0]
[© Michael Fielitz on Flickr / CC BY-SA 2.0]
[© Michael Fielitz on Flickr / CC BY-SA 2.0]
Michael Fielitz on Flickr / CC BY-SA 2.0]

di Alessandro Brogani

Ci sono le prime foglie che colorano i viali di Berlino. Tempo è passato da quando è partito per arrivare in Germania, con la valigia piena di cibo e speranze.

Al paese, giù in fondo allo Stivale, ha lasciato un pezzo di cuore ed un pugno di ricordi: quelli dei giovani, quelli che in parte si dimenticano con facilità, quelli che lo accompagneranno per tutta la sua vita futura. È arrivato alla stazione di mattina presto, quando ancora fuori è buio, quando il freddo pungente ti entra dentro nonostante la maglia di lana, quella che mamma t’ha dato il giorno prima di andare via, piangendo.

Ce n’è voluta di voglia d’andare via, di fuggire per tornare indietro; ce ne sono voluti di pianti strozzati in un cuscino stretto forte su di una branda dura e maleodorante.

Eppure no; eppure la voglia di scappare era soffocata da quella di non tornare da sconfitto laggiù, al paese, dove le lettere che mandava erano quelle di chi ce l’aveva fatta, di chi era riuscito dove altri avevano fallito. Ed allora giù ad ingoiare rospi, a maledire la gente che lo circondava urlandogli addosso la sua incapacità di parlare la loro lingua e cercando rifugio tra quegl’altri, quelli che la sua lingua la parlavano, ma che lo sfruttavano in cucina a lavare gli avanzi dei ricchi signori, quelli che urlavano anche la loro ricchezza a suon di marchi.

Intanto passavano gli inverni, le primavere e le estati, quelle calde che si poteva andare a fare il bagno al lago con gli amici, quelli veri, quelli come te.

[© Uli Herrmann on Flickr / CC BY SA 2.0]
Uli Herrmann on Flickr / CC BY-SA 2.0]

Poi arrivò lei, un giorno al ritorno dal lavoro, quando già parlava un po’ della lingua di chi gliel’aveva gridata in faccia, solo poco tempo prima; era bella, bionda, come l’aveva sempre sognata fin da quando aveva messo piede nel Paese dell’efficienza e delle patate arrostite.

Il libro le era scivolato giù, mentre scendeva dal treno e s’era andato proprio ad infilare nella fessura tra la banchina e le porte, cadendo sui binari. Appena partito il treno, con un gesto d’altri tempi, da eroe romantico, s’era calato giù fin su quei binari, senza pensarci due volte, riemergendo con l’oggetto che gli avrebbe aperto le porte del paradiso: un sorriso, un danke ed un capitolo nuovo s’era aperto nella sua vita.

L’avesse visto sua madre, giù al paese, mentre volava un metro sopra la terra quella sera rincasando.

Diversi erano i piatti sporchi del giorno dopo, quelli stessi che aveva avuto voglia per tutto quel tempo di lanciare fuori dalla finestra; diversa pure la puzza dei crauti che veniva dalla casa di fronte, mentre il sonno tardava a venire.

Lei lo aspettava davanti all’Anhalter Bahnhof, quel pomeriggio di primavera. Il sole era dolce e feriva le foglie che, verdi, facevano i tigli più belli e sorridenti. Una coppia di anziani, mano nella mano, passeggiavano lungo il viale, mentre ragazzi giocavano sul piazzale antistante i bei ruderi in mattoni rossi.

Aspettò a lungo, con i biondi capelli accarezzati da un leggero vento, quello che annunciava l’estate prossima della vita; lui non arrivo mai. Lei andò via cercando spiegazioni che nulla dicevano di ciò che era successo. Non ne seppe più nulla e sentì d’essere stata illusa da quegli occhi scuri e profondi che avevano solo voglia di giocare con il cuore delle donne: un vero peccato!

Già, un vero peccato, ho pensato anch’io leggendo un breve epitaffio su d’una tomba nel cimitero Dorotheenstädtischer Friedhof; così recitava: “Qui giace…, giovane italiano venuto in cerca di fortuna, morto in un giorno di primavera mentre andava ad incontrare il suo più grande amore”. La vita è più strana di un romanzo, ho pensato mentre m’allontanavo.

Ed intanto spuntano le prime foglie sugli alberi di Berlino.