RubricheThe Needle

Berlino è finita? Che noia.

[© Katie King on Flickr / CC BY ND 2.0]
Katie King on Flickr / CC BY ND 2.0]

di Joseph Pearson
(da Needle Berlin)

Più o meno ogni anno, caschi il mondo, i giornali rispolverano la solita tiritera: Berlino “è finita”? Ha cessato di essere “la città più cool del mondo”? Si aggrappano tutti a questo vecchio ritornello, mentre tu ti chiedi: che cosa intendono dire? È vero? Cosa c’è di sbagliato nella domanda?

Se avete letto i giornali recentemente, potete risparmiarvi la premessa contenuta nel paragrafo successivo e saltare direttamente alla mia invettiva, che arriva subito dopo.

Il mormorio, questa volta, è cominciato nella chiacchieratissima (e molto più costosa e cosmopolita) metropoli al di là dell’Atlantico, con un articolo positivo pubblicato nella sezione Styles del New York Times. Riguardava theneedle_logogli abitanti di Brooklyn che si trasferiscono a Berlino per la sua scena elettronica. Dopo è arrivato Gawker, che ha definito il reportage del Times «un epitaffio» per Berlino, e ha chiesto ai propri lettori «Quale sarà la prossima place to be?». L’articolo di Gawker è coinciso, più o meno, con il vaporoso pezzo di Rolling Stone su come il grande e iper-turistico club Berghain sia in pericolo, e su come Berlino rischi di diventare una «versione più noiosa e più costosa di se stessa». I quotidiani tedeschi hanno inseguito l’onda americana, felici di attaccare la città che chiunque in Germania, soprattutto a Monaco, ama odiare. Come da previsioni, la Süddeutsche Zeitung è sembrata la più entusiasta dell’annunciato tracollo. I giornali di Berlino, poco dopo, hanno analizzato i pro e i contro di non essere più “la città più cool del pianeta”. Atlantic Cities ha catturato l’umore di Berlino con grande precisione, scrivendo: «Nessuno gioisce della “fine” di Berlino più di Berlino stessa».

Il problema maggiore di tutto questo battage giornalistico sulla “fine di Berlino” è il fatto che si sia focalizzato su un certo tipo di popolazione – analizzando il destino degli hipster e di quelli che si sono spostati qui solo per la “coolness” della città. Ma chi cazzo si trasferisce in un posto soltanto perché è “cool”? Siamo traumatizzati a tal punto dalle etichette, dai tempi delle superiori, che sentiamo l’esigenza di rendere globale quest’ansia puerile. Non solo abbiamo bisogno di essere “cool”, ma anche il luogo in cui siamo – a livello internazionale – deve esserlo! Mi ricordo i ragazzini che a scuola avevano gli “armadietti fighi”, situati nel corridoio in un angolo più appartato rispetto agli altri. Merda, che cosa succede se arriva qualcuno e vi dice che quegli armadietti non sono più “cool”? Cosa succede al vostro “io” cool? Immagino fareste meglio a trovare un armadietto a Cracovia o Lipsia o Montevideo o Istanbul, in modo tale da non dover dire agli altri che vivete in una place that was, e non più in una place to be. Che Dio vi aiuti, se qualcosa disturba la vostra perpetua adolescenza.

Le difficoltà degli hipster berlinesi e il destino della vita notturna in città si uniscono però con i rischi veri, quelli di una città che si sta gentrificando rapidamente. Non provo molta compassione per quelli che, dopo avere orgogliosamente “scoperto” la scena underground, ora ritrovano i loro templi sacri invasi di visitatori con la guida turistica nella tasca dei pantaloni. Non sono preoccupato per lo status di Berlino come “capitale del divertimento”, né mi preoccupo di quello che accade dentro al Berghain. Il valore della capitale tedesca non risiede nella sua propensione ad essere un luogo di divertimento. Dall’altro lato, non ho nemmeno il tempo per i borbottii dei berlinesi provinciali su quanto la loro città si stia internazionalizzando e sia stata invasa da hipster che parlano solamente inglese.

Mi dispiace ragazzi, ma ho altre cose a cui pensare.

Onestamente, posso vivere senza il “cool” e la xenofobia che l’accompagna, se il mio panettiere turco può vivere sempre nella stessa strada in cui sforna il pane. L’utilizzo della parola “cool” è approssimativo, “cool” ha senso solo se si riferisce a quello che, finora, tutti abbiamo amato follemente di Berlino: i prezzi bassi, il poco stress, la sensazione di trovarsi in una “falla” del sistema capitalistico. È questo che dovremmo davvero provare a proteggere, ben più dell’atmosfera del «più grande club del mondo». (Sono aperto a discussioni complesse e magari sofistiche su come le classi più povere e le discoteche stiano correndo gli stessi rischi… ma sospetto che il rapporto causa-effetto sia un attimo più complicato di così).

Il Kater Holzig, il club chiuso poche settimane fa
Il Kater Holzig, il club chiuso poche settimane fa [© Joseph Pearson]

Questi sono quelli che ci perdono:

Se sei un berlinese con un salario modesto starai assistendo all’esplosione della speculazione e degli investimenti immobiliari, del turismo (nel 2013 un record di 27 milioni di pernottamenti, quasi come a Parigi) e degli appartamenti di vacanza, tutte cose che si riflettono sul tuo standard di vita. Gli affitti stanno crescendo tantissimo in quartieri di Berlino Ovest un tempo periferici, confinanti con il Muro, come Kreuzberg. Ora che il Muro è caduto, e questi quartieri sono diventati desiderabili, gli affitti sono esplosi: per esempio, lungo il canale a Neukölln, sono cresciuti di oltre l’80% dal 2008. Questi quartieri sono popolati da immigrati e operai. L’esplosione di Berlino, per loro, non è stata positiva – e metà di tutti i Berlinesi guadagnano meno di 1500 euro al mese, un terzo meno di 1000.

Se invece sei un artista che si è trasferito qui per lavorare, con la crescita degli affitti non puoi più vivere economicamente come negli anni d’oro, almeno non nei quartieri dove vorresti abitare veramente. È difficile trovare spazio per uno studio, i costi sono maggiori, non c’è più l’atmosfera d’improvvisazione creativa di un tempo, e per i giovani curatori è difficilissimo persino avere uno stage non retribuito. Oltretutto, i berlinesi non sono spendaccioni, e quindi dovrai comunque ritagliarti il tuo posto nel mercato dell’arte internazionale. In questo momento, stai perdendo anche tu.

Una delle principali ragioni per cui questi gruppi sociali stanno perdendo non è il fatto che Berlino sia “finita”, quanto piuttosto il fatto che stia continuando a crescere, e che con essa crescano le disuguaglianze.

Amanti della vita notturna, avete letto un giornale di recente? Mi sentite? Qui c’è più potere politico ed economico oggi di quanto ce ne sia stato in un secolo. Tra i suoi partner europei, la prima che Obama chiama è sempre Angela Merkel, non gli inglesi o i francesi, quando scoppia una crisi in Ucraina. Inevitabilmente, la città è diventata l’attore principale e l’ago della bilancia del continente. Per i commentatori politici e gli economisti, Berlino non è “finita”, è ancora the place to be. I politici, i diplomatici, i lobbisti, gli esperti dei think tank e tutto il circo che sta loro intorno fanno in modo che Berlino sia ben lontana dall’essere “finita”. E se ne fregano di quello che succede al Berghain.

C’è anche un bel giro di nuove iniziative economiche in città. I blogger sminuiscono l’ascesa delle start-up, ma non c’è dubbio che l’economia di Berlino si stia diversificando. C’è una nuova forza-lavoro giovane e istruita che arriva dal Mediterraneo. La maggior parte dei giovani che si trasferiscono a Berlino arrivano infatti da Italia e Spagna, dove i livelli di disoccupazione sono estremamente alti (Berlino potrà anche avere un’alta disoccupazione per la Germania, ma non c’è paragone con stati dove il tasso giovanile arriva al 50% come in Spagna). Questi immigrati stanno imparando la lingua e si stanno dando da fare per trovare lavoro nella città più interessante della forza trainante dell’economia europea. Le loro aspirazioni sono piuttosto diverse rispetto a quelle degli artisti americani e dei clubbers che vengono qui per vivere spendendo poco, i quali – a causa del linguaggio e dei problemi con i visti – vedono il loro soggiorno come una vacanza temporanea, come un periodo sabbatico. Berlino è davvero finita se non puoi più viverci facilmente quando attingi dai tuoi risparmi e non hai un lavoro. (Non dico che i nordamericani non lavorino, dico soltanto che non sono spinti dalle stesse necessità economiche e dalla stessa caparbietà degli immigrati dell’Europa meridionale). Nel frattempo qui girano capitali e soldi nuovi: datevi un’occhiata attorno e scoprirete che – mi dispiace per voi – solo il 20% di essi deriva dal turismo.

L’immissione di soldi, la centralità politica e una forza lavoro più internazionale e determinata, insieme alla speculazione immobiliare, originano la gentrificazione. Ma originano anche una capitale che non è mai stata tanto internazionale, dove fioriscono buoni ristoranti, dove la scena artistica (nella musica classica, ad esempio) continua ad essere tra le migliori del mondo. Tutti questi grandi sviluppi si accompagnando da un malessere reale per la fragilità della città.

Non credo che gli opinionisti dei giornali, seduti alla loro bella scrivania nella redazione di un quotidiano americano, riflettano su queste dinamiche, quando scrivono le superficiali parole: “Berlino è finita”.

Per le vittime della gentrificazione, il fatto che Berlino sia “finita” non è un problema. Il loro problema, in realtà, è l’esatto opposto.

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The Needle è il blog di Joseph Pearson, autore e storico canadese residente a Berlino. Creato nel 2008 sotto il nome di Berlin Memory Blog, da allora è cresciuto raggiungendo circa 50mila pagine viste mensili (10/13). Scritto in lingua inglese e aggiornato ogni sette giorni, è stato votato tra i migliori blog e siti su Berlino. Potete seguire The Needle anche attraverso Facebook e Twitter.

Joseph_Pearson

Joseph Pearson è uno scrittore, storico ed esperto locale di Berlino, interessato in come il passato influisca sulle questioni del presente. Nato in Canada da una famiglia Italo-Canadese, ha frequentato il liceo presso il Collegio del Mondo Unito a Duino (Trieste) e svolto un dottorato alla Università di Cambridge, nel Regno Unito. Si è spostato a Berlino da New York city, dove ha insegnato alla Columbia University, ora insegna alla New York University-Berlin. Ha lavorato nell’ufficio stampa della Commissione Europea, dello United Nations Development Program in Central Asia, è stato corrispondente da Berlino per il quotidiano nazionale The Globe and Mail, ha lavorato come saggista e blogger per il Teatro Schaubühne e partecipato come esperto di storia per alcuni documentari, tra cui National Geographic. Potete contattarlo a questo indirizzo: needleberlin [AT] gmail.com

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