Arte e Cultura

Dal sogno alla resa, un documentario racconta “dall’interno” la fine del Tacheles

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di Valerio Bassan

La storia del Tacheles è la storia recente di Berlino: una vicenda di cambiamento urbano, di gentrificazione, di trasformazione culturale.

Il centro artistico di Oranienburger Straße nacque il 13 febbraio 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro, quando un gruppo di artisti occupò il fatiscente edificio di Mitte, salvandolo da un abbattimento pianificato dopo poche settimane.

Nessuno al tempo avrebbe scommesso che il Tacheles sarebbe sopravvissuto per 22 anni, diventando uno dei simboli della rinascita di Berlino e uno dei suoi punti di riferimento (contro)culturali.

La Kunsthaus venne chiusa solo nel settembre 2012, dopo un braccio di ferro durato anni con i proprietari dell’edificio: gli artisti presenti dovettero abbandonare definitivamente i loro studi, mentre l’amministrazione cittadina non prese posizione, lasciando che lo sfratto si concretizzasse.

Nel cortile interno del Tacheles, una ristretta comunità di artisti riuscì a resistere ancora qualche mese, continuando a produrre la propria arte e a tenere viva la mitologia del luogo che, negli anni, era inevitabilmente – visto il suo fascino e la sua posizione centrale – diventato uno dei luoghi di Berlino più apprezzati dai turisti.

Oggi, un documentario racconta gli ultimi giorni di quella comunità: The Last Days of Tacheles, diretto dal giornalista e documentarista italiano Stefano Casertano, sarà presentato in anteprima al prossimo Rome Independent Film Festival, sabato 22 marzo alle 17.00 al Nuovo Cinema Aquila di Roma.

Stefano ha trascorso un intero anno vivendo fianco fianco con gli artisti, filmando la loro vita quotidiana, le interazioni, e i loro pensieri sulla cultura e sull’arte. Per farci raccontare la genesi e la realizzazione di The Last Days of Tacheles abbiamo incontrato Casertano a pochi giorni dalla presentazione ufficiale del film.

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Stefano Casertano, al centro, durante le riprese

Come sei entrato nella comunità del Tacheles? È stato difficile farsi “accettare” con la videocamera?
Cercavo da alcuni mesi una comunità di artisti da seguire. Volevo raccontare la città tramite le sue trasformazioni – e gli artisti, con le loro sensibilità e percezioni, sono in grado d’interiorizzare ed esprimere il “costante divenire” della società urbana. Alcuni gruppi hanno mantenuto la porta sbarrata: pensavano addirittura che potessi essere un agente inviato da qualcuno per spiarli.

Al Tacheles è stato diverso: il progetto è stato accettato presto. Ma è stato solo l’inizio: ci sono stati artisti che hanno accettato di parlare alla cinepresa solo dopo mesi e mesi. L’importante in questo mestiere – così come in tutti i mestieri, forse – è ascoltare. Da questo punto di vista, per me è stata un’esperienza umana estremamente profonda.

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Cosa differenziava la comunità di artisti del “giardino” da quella del “palazzo”, se una differenza c’era?
La storia del Tacheles è il prodotto di centinaia di anime, e l’evoluzione non si è mai arrestata. Alla fine l’aspetto commerciale tendeva a prevalere nel palazzo (si vendevano magliette e cartoline), ma forse era l’unico compromesso possibile per mantenere in moto una macchina che era diventata un punto di riferimento per la città. Gli artisti che hanno occupato il “cortile” hanno lasciato il palazzo nel 2008, dopo una “scissione” a causa di conflitti interni. Era rimasto però un senso di collaborazione, dovuto al “nemico comune” della banca che li voleva cacciare.

Cosa hai imparato dagli artisti che hai intervistato e dalla loro esperienza?
La vita dell’artista è costantemente al limite, perché solo sul punto più alto, poco prima del baratro, si può osservare tutto. Sul punto più alto si è anche soli. Mantenere questa stabilità richiede un’immensa forza d’animo, che non è da tutti, e che colloca i veri artisti al bilico tra genio e disperazione. Ho visto l’esempio di vite totalmente dedicate alla produzione di arte, con la vita stessa che diventa opera. Molte vite si bruciano in fretta.

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Cosa significava il Tacheles per Berlino e cosa ha significato la sua chiusura, a livello culturale e politico?
La chiusura del Tacheles è stata qualcosa di folle. Si trovava sull’Oranienburgerstrasse, a Mitte. C’erano club alternativi, un museo di fotografia, e tante altre cose. Adesso è stato chiuso tutto. Abito in zona: perfino il venditore di patate fritte (ha un caravan storico sulla via) si lamenta del fatto che non ci sia più gente in giro. Se ne stanno andando perfino le puttane.

Quale è il pericolo che corre, oggi, la capitale tedesca?
Berlino sta rischiando di diventare come qualsiasi altra città della Germania, in cui la brutta architettura – priva delle opportunità del nuovo – diventa solo un po’ triste. Senza una forte borghesia intellettuale come a Monaco o Amburgo, Berlino si sta svilendo: ha rinunciato troppo in fretta alla sua base culturale, che era proprio la Berlino degli anni Novanta, di cui il Tacheles era l’esempio più egregio.

Adesso la città non ha direzione, riferimenti, punti di vista. Eppure, sarebbe bastato investire una minima porzione dei soldi buttati per il nuovo aeroporto per salvare il Tacheles. Certamente avrebbe avuto bisogno di riforme – c’erano fin troppi capetti – ma creare un bel centro artistico sarebbe stato splendido.

Il trailer del documentario:

The Last Days of Tacheles – Trailer

from Inconstant Becoming on Vimeo.

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