Arte e Cultura

Teenage, perché l’adolescenza è stata inventata in America

di Elisa Cuter(@elisacuter)

Too old for toys / (…) too young for boys / I’m just an in between” si lamentava Judy Garland in una delle sue prime apparizioni cinematografiche. Ma, come dimostra Teenage, storicamente l’adolescenza è stata tutt’altro che un’inutile fase di passaggio.

Il documentario di Matt Wolf presentato ieri a Berlino all’interno della rassegna “Unknown Pleasures” dedicata al cinema indipendente americano del Babylon Kino di Rosa-Luxemburg Straße (che proseguirà fino al 15 gennaio) dà prova di quanto l’adolescenza sia stata un’invenzione squisitamente novecentesca, e in particolare un’invenzione americana.

Rispetto all’omonimo libro di Jon Savage (anche autore della sceneggiatura) da cui è tratto, il cui periodo preso in esame parte dalla seconda metà dell’800, il film prende inizio dal 1904 e prosegue mostrando come si sia affermato storicamente il concetto dell’esistenza di una fase di transizione tra l’infanzia (a sua volta un’invenzione vittoriana) e l’età adulta. Una fase che in quell’anno sindacati e i riformatori scelgono di tutelare: i ragazzi in età puberale vengono tolti dalle fabbriche e riportati sui banchi di scuola.

È una rivoluzione non priva di lati negativi: alla deresponsabilizzazione (anche penale) di questi giovani adulti consegue, specie nelle classi più povere, un’inevitabile voglia di trasgressione, e si assiste così alla nascita delle prime bande organizzate di ragazzini delinquenti. “We were young, and we were allowed to be it”, dichiara una voce fuori campo.

Wolf sceglie infatti di dare un’impronta intimista al documentario grazie all’uso di una narrazione sempre in prima persona, fatta di giovani voice over che si susseguono e conducono lo spettatore in tempi e luoghi distanti tra loro.

Da questo punto di partenza comune, il film segue infatti tre binari distinti analizzando gli sviluppi, inevitabilmente molto diversi, della gioventù tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. Assistiamo così al permissivismo terapeutico delle Teen Canteen (centri ricreativi autogestiti) americane proprio mentre a Berlino la gioventù viene irregimentata nella Hitler Jugend. La storia che scorre sotto ai nostri occhi è infatti anche la storia di una strumentalizzazione, operata su più fronti.

Dai totalitarismi, perché il bisogno di azione e di grandi ideali sono la forza e allo stesso tempo la debolezza degli adolescenti, ma anche del capitalismo e del consumismo compulsivo, perché altrettanto tipici ne sono le insicurezze e il bisogno di fare parte di un gruppo.

In questo secondo senso si vede bene come l’America, anche grazie alla sua promessa di ottimismo e libertà, sia stata da subito l’aspirazione massima per i giovani occidentali fin dagli anni ’20. Ma ad avere un peso, fino alla nascita ovviamente americana del termine “teenager”, avvenuta nel 1945 (anno in cui il film si conclude), fu anche la speranza data ai giovani di poter essere “part of the solution”: essere coinvolti, avere una voce e poter fare la differenza.

Il film riesce a raccontare simili speranze intrecciando alla Grande Storia tanti piccoli ritratti individuali, mescolando in modo quasi impercettibile fund-footage, vecchi filmini privati e riprese realizzate per il film -principalmente in Super8-, semplificando in alcuni casi i fenomeni ma proprio per questo riuscendo ancora di più a dare l’impressione che siano gli stessi teenager a raccontare se stessi in un grandioso e poetico affresco corale.

Quasi come se al di là delle generazioni esistesse una segreta alleanza tra tutti gli adolescenti della storia, quasi a ricordarci che forse anche la generazione dei giovani d’oggi, in confronto ai suoi predecessori che hanno affrontato guerre, crisi e dittature, non è poi così perduta. E che soprattutto – ciò che più conta, per un adolescente ma forse anche per chi non lo è più -, non è sola.

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