Sven Marquardt non è un mostro: intervista all’uomo-simbolo del Berghain

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Sven Marquardt, il famosissimo "bouncer" del Berghain e simbolo della Clubkultur berlinese. Berlino, marzo 2022. Photo credits: EPA-EFE/CLEMENS BILAN

di Mattia Grigolo (pubblicato originariamente su Soundwall.it)

Sven Marquardt non è un mostro.
Te lo dico subito, così lo sai, così non ti aspetti di leggere che sono stato trattato a pesci in faccia, con sufficienza, davanti al gigante dai terrificanti tatuaggi sul volto che non ti fa entrare al Berghain senza una ragione valida. I motivi ci sono, anche se possono essere discutibili, questo lo deciderai tu.
C’è, con Sven, anche un uomo e una vita che si è accesa quando la Stasi controllava le strade e il Muro attraversava Berlino; una vita vissuta attraverso la cultura punk, la fotografia, l’elettronica, il clubbing di ieri e di oggi, e i problemi con la giustizia.
Sven Marquardt è una maschera impassibile sul volto di un uomo che scruta la gente, davanti all’entrata del club più famoso del mondo. Una maschera.

L’incontro è fissato in un bar di Alexanderplatz, mi accompagna Thomas Janson, il nostro interprete madrelingua (Sven parla solo tedesco). La prima cosa che noto nel momento in cui ci stringiamo la mano è che sta sorridendo. Questo può essere considerato un pensiero poco rilevante, ma ti assicuro che vedere Sven sorridere dal vivo è assai raro, non tanto perché non sorrida, nelle sue parecchie video interviste i sorrisi li spreca, ma perché se incontri Sven è, al novanta per cento, perché sei davanti alla selezione per entrare al Berghain. Ecco: lì è difficile vederlo sorridere.

La seconda cosa che noto è che mi sta stritolando la mano, complice, probabilmente, la quantità di anelli da diversi etti che porta alle dita. Il suo volto è solcato da cicatrici d’inchiostro, i capelli brizzolati troppo imbrillantinati, enormi piercing al naso e alle labbra. Alle orecchie.

Ordina un cappuccino e un’Energy Vitamin. Mi chiede subito, a bruciapelo, se vivo qui. Rispondo che “Sì, mi sono trasferito da un po’”. Annuisce con un’espressione cupa, poi sorride e mi dice: “Bene!”. Io ricambio con un risolino.

E cominciamo.


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Questa è la tua prima intervista per l’Italia?
Non ricordo, onestamente, ma penso di si.

Bene, parliamo subito della tua fotografia? Ci racconti dell’incontro con Robert Paris, da molti considerato il tuo mentore?
In realtà il mio vero mentore è stato la madre di Robert, Helga Paris, una fotografa molto importante in Germania. Durante gli anni ottanta, il suo obiettivo era di documentare, con le immagini, i diversi stili di vita del “periodo DDR”. Comunque, lei mi ha spronato molto a continuare, anche nei momenti più bui. Io le facevo vedere i miei scatti e lei mi spiegava cosa funzionava e cosa no. E’ stata davvero molto importante.

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Il Berghain.
Foto: EPA-EFE/HAYOUNG JEON

E Robert Paris?
Beh, io e lui avevamo lo stesso stile di vita, ma eravamo diversi nell’approccio alla fotografia. Lui amava i paesaggi, spesso si svegliava all’alba quando la città era vuota e ritraeva questi scenari urbani, spogli e silenziosi. Io invece ho sempre amato i ritratti e, infatti, mi sono specializzato proprio in quello.

Poi è arrivato Rudolf Schäfer.
Si, con lui ci si vedeva una o due volte alla settimana ma non parlavamo molto della fotografia e dei suoi dettagli ma della vita in generale, chiacchieravamo delle nostre esperienze, di quello che stava succedendo in quel periodo; e questo, in realtà, mi è servito molto anche nella mia professione. Rudolf aveva un metodo di fotografare più avanzato del mio e tendeva a presentare “lavori normali”, non so se mi spiego; erano idee e immagini che, tendenzialmente, gli avrebbero evitato problemi con la Stasi – al contrario, per esempio, dei lavori di Helga Paris.

Immagino, non doveva essere facile creare qualcosa in quelle condizioni.
Si, più che altro dovevamo improvvisare, perché non potevamo permetterci di acquistare macchine fotografiche troppo evolute e quindi dovevamo lavorare sempre in analogico. Per molti anni, soprattutto prima della caduta del Muro, fotografavo con una Praktika, ora utilizzo una Nikon FM2.

Le tue fotografie ritraggono realtà malinconiche, che però abbracciano, allo stesso tempo, un immaginario patinato. Da cosa cogli l’ispirazione?
Principalmente dalla mia vita, da quello che ho vissuto e quello che sto vivendo, ma anche dal mio lavoro come selector del Berghain. Quando sono alla porta, vedo tanta gente passarmi davanti, molta della quale è una grossa fonte d’ispirazione per me. E’ una grande fortuna. All’inizio della mia carriera traevo spunto dal sentimento generale della gente che viveva a Berlino Est durante gli anni del Muro; infatti, dal 1993 al 2000, ho smesso letteralmente di fotografare.

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Sven Marquardt
Foto: EPA-EFE/CLEMENS BILAN

Sono molti anni. Perché?
Vedi, io ho iniziato a fotografare perché desideravo una libertà che con la DDR non esisteva. Nel momento in cui tutto è finito, ho sentito come se fosse terminato anche il mio compito, come se il mio desiderio fosse stato esaudito. Te lo spiego meglio; i momenti più difficili (ma anche quelli più felici) in quegli anni non si potevano fotografare perché, semplicemente, era difficile catturarli. Ora ci sono gli smartphone ed è tutto molto più accessibile, più libero: puoi impadronirti di qualsiasi momento in ogni istante, scattando fotografie e registrando video. Questa cosa non la sopporto, devo essere sincero. Ho un rifiuto.

Sembra un po’ lo stesso rifiuto che porta al divieto di fare fotografie e video all’interno di molti club a Berlino.
Non so, quello che posso dirti è che, negli anni novanta, a Berlino era difficile trovare foto e video della club culture, questo perché non se ne sentiva il bisogno in quel momento. E’ una cosa che, in un certo modo, condivido tuttora.

punk

Ho capito. Parliamo di punk?
Io sono sempre stato un anticonformista e quello era il mio habitat naturale, anche se negli anni ottanta era abbastanza pericoloso essere punk nella Berlino Est: la polizia ti arrestava anche soltanto se ti beccava chiedere moneta per strada. Io ricordo che, ai tempi, noi punk non potevamo permetterci di andare nei negozi e comprare i giubbotti in pelle con le borchie e gli anfibi; anche perché, banalmente, non esistevano. Il nostro vestiario era fai da te, dovevamo comprare la pelle per fare il giubbotto, poi comprare le borchie e infine le toppe punk, poi “assemblarli”. All’inizio del prossimo anno uscirà un mio libro di fotografie e ho affidato la prefazione ad un pittore contemporaneo mio amico, con cui collaboro, Marc Brandenburg. Lui, durante gli anni del Muro, abitava nella Berlino Ovest e allora, siccome non voglio fare una prefazione classica, pubblicheremo uno scambio di e-mail tra me e lui in cui parliamo proprio di quegli anni e di quella che noi chiamiamo l’Ostalgie, ovvero la nostalgia per la vita durante sotto il sistema socialista.

Quali erano i tuoi riferimenti musicali?
Ascoltavo moltissimo sia il punk che la new wave, dai Sex Pistols ai Joy Division, passando attraverso i The Cure e B-52’s, ma quello che facevamo regolarmente era presenziare ai concerti illegali di band sconosciute berlinesi. La maggior parte delle volte erano organizzati dentro delle cantine, e ti dirò, quegli stessi concerti spessissimo erano supportati dalla Chiesa, la quale sosteneva e aiutava la cultura underground perché andava contro il regime della DDR.

Era pericoloso? So che hai avuto dei problemi con la giustizia, in passato?
In realtà il movimento punk non era un problema per la DDR, eravamo degli anticonformisti e dei piantagrane, venivamo spesso arrestati e schedati, per poi essere nuovamente rilasciati, questo è quello che intendo per pericolosità; la Stasi ci considerava una cosa innocua e noiosa, dopotutto… quindi diciamo che non venivamo perseguitati. Tutti sappiamo che, in quegli anni, è sparita molta gente, ed è assolutamente vero; ma in realtà, la maggior parte delle persone scomparse nel nulla semplicemente erano andate a vivere in provincia. Ad ogni modo, per me gli anni ottanta stati un periodo positivo, che ho vissuto con gioia.


DDR

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Soundwall è, soprattutto, un magazine di musica elettronica e tu ne hai vista passare parecchia qui a Berlino, in un certo senso anche come “addetto ai lavori”. Ci racconti qualcosa?
Io sono entrato nel giro all’inizio degli anni novanta. Dj Clé (ndr. insieme a Mike Vamp sono i Märtini Brös), che era mio amico, mi diede il mio primo impiego come selector all’ex Suicide (ndr. ha poi cambiato sede), impiego che da quel momento non ho mai lasciato passando poi all’OST-GUT, il primo nome del Berghain, che si trovava alla stazione di Ostbahnof (poi, demolita questa prima sede, si è spostato in una ex centrale termica, che è appunto il luogo dove ora lavoro).

Qual è il tuo rapporto con la musica elettronica?
Personalmente preferisco quel tipo di techno spigolosa e cattiva, la minimal mi annoia come anche l’elettronica troppo melodica. Mi piacciono i beat scuri e pesanti.

Mi fai dei nomi?
Ok, vediamo… Len Faki, Marcell Dettmann, ma anche Dj Rok e Dj Hell, per dirtene qualcuno. Sia i primi che i secondi, seppur probabilmente diversi tra loro, sono devastanti quando suonano, ma anche sexy, seducenti, hanno un modo tutto loro di accattivarsi il dancefloor. Amo i vocals, ma solo quando non sono troppo “disco”: mi vengono in mente Tama Sumo e Steffi, per spiegarti cosa intendo, i loro vocals sono affascinanti. In ogni caso negli ultimi anni ho un po’ smesso di frequentare i club come “cliente”, più che altro il mio rapporto con i dj e i producer, soprattutto quelli del roster di Ostgut, si è evoluto in uno scambio più professionale, dove loro diventano i modelli e l’ispirazione per le mie fotografie. Ogni tanto, mentre lavoro al Berghain, mi capita di staccare per andare ad ascoltare qualcuno che sta suonando, ma non posso realmente godermelo e questo mi rattrista.

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Il Berghain – Unsplash

Va bene, stiamo parlando di Berghain, dunque io ci provo: Che tipo di concetto c’è dietro la chiacchieratissima selezione di questo club?
Quello che ti posso dire è che, spesso, le persone non capiscono che io lavoro in un team: non sono da solo e, mi ripeto, lavoriamo per fare in modo che la gente all’interno del club si diverta.

Ok, ma tutti si domandano quali sono le regole per non venire respinti, dato che sembra quasi che non ne esistano. Pare, più che altro, che si venga selezionati in base ad un “gusto prettamente personale del selector”.
Allora, mettiamola così: la gente che frequenta il Berghain e il Panoramabar lo fa perché si vuole divertire, perché la qualità è alta, perché vuole stare bene. Il nostro compito è quello di assicurarci che questo accada. Non ci deve essere nessun problema all’interno del club, e infatti non c’è. Dunque, noi dobbiamo capire chi, tra quelli che richiedono di entrare, può essere aggressivo, può intaccare il “mood Berghain”, ma anche chi vuole essere solo uno spettatore. Il Berghain non vuole visitatori, come se il Club fosse una mostra, vuole frequentatori.

A tal proposito, come vedi questo esodo da parte di moltissimi giovani provenienti da tutto il mondo in quella che è definita, permettimi il termine, la nuova Terra Promessa?
Molti berlinesi si stanno opponendo a questo esodo, come anche tanti stanno, per questo stesso motivo, evitando in qualche modo la vita notturna della città, soprattutto nei club più battuti dai turisti. Personalmente ritengo sia sbagliato. Berlino sta diventando, e deve diventare, una metropoli di livello globale, questo anche perché è un fattore economico importante per la città e lo stato stesso.

Ok, ma insomma, chi c’è dietro la maschera d’impassibile selector del Berghain?
Ho sempre trovato molto difficile descrivermi, per questo mi piace farlo attraverso la mia fotografia, è con quella che dico chi sono e cosa mi piace e cosa ho dentro.

Bene. Abbiamo finito. Ora che hai capito che non sono aggressivo e sono un bravo ragazzo, non avrò mai più problemi ad entrare al Berghain quando ci sarai tu?
Forse. (ride)

Forse?
Quante volte non sei entrato?

Una da quando vivo qui.
E quante volte, invece, sei entrato?

Non so, tra le dieci e le quindici volte.
Di che ti lamenti, hai una buonissima media. Pensa che ci sono tantissimi berlinesi, nati e cresciuti in Germania, che hanno una media molto più bassa della tua.

Si, ma te la ricorderai la mia faccia?
Ciao. Devo andare.

– Il Mitte ringrazia Mattia Grigolo e Soundwall.it per la gentile concessione –
[Credits: traduttore madrelingua Thomas Janson]

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