All’Hamburger Bahnhof la poesia semiotica di Epaminonda

© harisepaminonda.com
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di Vita Lo Russo
(pubblicato su Riprendere Berlino)

Ci sono dovuta andare due volte a vedere Haris Epanimonda, in mostra ancora per pochissimo (fino al 12 gennaio) all’Hamburger Bahnhof, prima di scrivere questo articolo.

A Berlino ha riproposto Chapters, l’evoluzione di Chronicles, un lavoro già presentato a Zurigo nel 2010. Definito da molti un capolavoro, il progetto Chapters-Chronicles nel 2011 era alla Kunsthalle di Francoforte, l’anno successivo al Moma di New York, ora a Berlino selezionato nella sezione Preis der Nationalgalerie für junge Kunst 2013.

Quella di Epaminonda, artista cipriota classe 1980 di base a Berlino è un’istallazione video della durata (ARGH!!!!) di quattro ore. I televisori sono quattro, uno in una sala, tre in un’altra. E salvo a non avere due occhi su ciascun lato del collo, è pressoché impossibile guardarne più di uno per volta.

Ciascuna stanza ha il suo audio distinto fatto di semplici gong, che hanno il potere di alzare e abbassare la tensione a seconda delle immagini che scorrono in video: dall’ansia alla paura, dall’irrequietezza allo sgomento, intervallati con brevi momenti di serenità. Si accede all’istallazione tramite un corridoio bianco, quasi del tutto spoglio.

Qua e là si intravedono pezzi di metallo scuro molto sottili, geometrici, eleganti, longiformi. E già si ha addosso il disagio. E poi arrivano le percussioni, regolari, irregolari, in sincrono con i video o fuori sincrono. I televisori trasmettono vasi, cascate, tramonti sul mare, oggetti antichi, uomini e donne del passato, geishe e mogli del presente, rovine, paesaggi aridi del Mediterraneo, interni di case di cipriote, palme, zebre.

I frame hanno lunghezza diversa, succedono delle cose: il mare si muove, gli uomini del passato parlano, il vento solleva la gonna di una geisha, avvengono diversi rituali misteriosi. A noi non è dato di capire il perché. La linearità narrativa è volutamente annullata. Tutto avviene molto lentamente e inesorabilmente. Questa lentezza qualche volta si blocca. Stop Motion, dicono quelli esperti di video, ma il sangue, nelle vene nostre e in quelle degli attori (zebra compresa) continua a fluttare.

Passando da un video all’altro si ha la sensazione che parlino tutti della stessa cosa, si viene addirittura tratti in inganno dalla possibilità che trasmettano in loop, le stesse immagini in sequenze diverse. In realtà le pellicole sono quattro, quanto i televisori. Ciascuna dura, lo ripeto, quattro ore, e sono una lunga rielaborazione di tutte le immagini di repertorio che l’artista ha girato a Cipro, nell’infanzia, nell’adolescenza, l’altro ieri.

In un’intervista pubblicata in occasione della personale al Moma, Epaminonda ha spiegato che con questo lavoro ha tentato di costruire connessioni astratte tra le cose e il passare del tempo attraverso una metodologia semiotica, che arriva dal linguaggio: «I see these works semantically, close to how one would form sentences, and attempt to go beyond the concept of mere documents».

Come ha spiegato la curatrice di Zurigo Francesca Di Nardo, nella simbologia di Epaminonda c’è sempre una realzione dualistica: «Per un uomo che scava una buca, un gruppo di giovani costruisce una struttura piramidale, a una coppia di geishe risponde una coppia di servitori dai vistosi orecchini a pendaglio, a una diafana figura femminile vestita di un’arancione sgargiante attorniata da due pappagalli, si contrappone una statuaria bellezza nera che si dipinge sulle gambe le striature di una zebra».

E così via… I gesti coreografici avvengono in una cornice minimal dove però non mancano mai oggetti feticcio come amuleti, gioielli, tessuti. Il tutto rende il nostro viaggio, mentale, maledettamente malinconico. E senza senso.