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TEUTONICHE SCHEGGE – Di riti ed antenati

Di Miriam Franchina
Dal giorno del mio saluto al suolo patrio, ogni estate coincide con un pellegrinaggio più o meno lungo nella terra degli antenati. Sciacquo compunta i panni al Serio, zompetto bucolicamente per i campi concimati della Bassa Bergamasca, rendo solenne omaggio a Città Alta. Ma soprattutto, mi sottopongo alla cura all’ingrasso sotto l’implacabile direzione materna, irrinunciabile rito che sancisce la mia lealtà gastronomica al Belpaese.

Ovunque io veleggi (tappe previste: la perfida Albione e la terra degli zoccoli arancioni), nel mio DNA è iscritto che le Alpi son le colonne d’Ercole culinarie, non importa quanto succulenti siano i Maultauschen o quanto mi piaccia la cucina viet: e il rientro agostano- come quello natalizio- rinnova questo imprinting a suon di carboidrati, formaggeria varia e salumi.


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Fortuna o determinazione? Questione di Sitzfleisch

Il risultato, senza troppi rimorsi, è uno strato di tenero adipe per affrontare l’impietoso inverno della DDR. Quello che mi piacerebbe poter chiamare “Sitzfleisch“, ovvero “carne per sedersi”.

Ahimè questo vocabolo ha ben altro significato, perché il carneo strato serve ben più alti scopi: chi ne è dotato, persevera strenuamente in attività noiose o spiacevoli. Insomma, il fondoschiena da noi è simbolo di fortuna, qualcosa che capita senza che lo si meriti o lo si cerchi.

Per i teutoni, invece, indica caparbia determinazione, è un cuscinetto che si costruisce stringendo i denti. E sulle proprie carte ci si resta anche a costo di nutrirsi di soli ravioli in lattina o Studentenfutter, letteralmente il “mangime per studenti”, un pacchetto con un mix di noccioline, frutta secca, uvetta.

antenati

Del resto, chi in Germania “ha culo”, in realtà ha “un maiale (“Schwein haben“), forse perché così anticamente si chiamava l’asse nelle carte, o forse perché era il premio per chi perdeva ai tornei medievali.

Riflessioni linguistiche nella terra degli antenati

Come al solito, meditando a tempo perso, insomma “a naso” (senza tirar dritto, come significa per i crucchi), finisco per arenarmi nelle croci et delizie del Kauderwelsch. Anche questa è una parola non letteralmente traducibile, una di quelle gemme che tocca capire e poi importare così com’è, oppure parafrasare. Il Kauderwelsch è un linguaggio ibrido, il creolo di chi mischia svariate lingue e pronunce. “Welsch” è un antico termine per indicare le lingue romanze, e “Kauder” il desueto per “venditore”.

A onor del vero, pare siano stati i mercanti nord italiani in giro per l’Europa i pionieri del Kauderwelsch, per cui se continuerò a blaterare in formato Google Translate, irriverente ad ogni manuale di dizione, grammatica e lessico, saprò di aver avuto laboriosi antenati, dotati di gran Sitzfleisch.

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