di Miriam Franchina
La mia “germanitudine” quotidiana – Oggi ho obliterato la mia quota giornaliera di germanitudine. Il problema è che sono solo le 9.37 di una cupa giornata di pioggia misto nevischio, e che la mia compagna di ufficio uigura ha ribadito che lei è un essere freddo secondo la medicina cinese, per cui bisogna alzare il riscaldamento al massimo.
E io sono piccolo e nero.
Dopo la sveglia delle 7, ignorando la subdola otite che sta per colpire, mi sono infilata i pantaloni e la mantella anti-pioggia, inforcato la bici e via, verso un corroborante caffè mattutino al bar più vicino. Oggi me lo concedo, ho bisogno di un rito speciale: per la prima volta in 27 anni di vita ho deciso di provare a mettere una pezza al devastante logorio del tempo e dei bagordi al mio corpo: si va in palestra.
Mentre mi godo il mio secchiello di acqua nerastra, ecco lo spirito della cruccaggine materializzarsi.
Un ragazzo allampanato, un po’ nervoso, si siede al bancone vicino a me, vista strada dove gli spazzini perdono la quotidiana lotta contro lo strato di foglie morte che si appiccica al suolo. Il tizio si dimena, sbuffa facendosi largo, finché il suo vicino di destra, un signore già grigio, si sposta ad un tavolo per leggersi il giornale in pace.
Peccato che il giornale appartenga al locale, e il giovane inquieto esige che il signore gliene dia metà, tanto non lo legge tutto contemporaneamente. L’altro lo guarda sprezzante e seguita nella lettura, dicendogli che da cliente ora se ne sta quatto quatto a leggere tutto il tempo che vuole. Il giovane si alza e scalpita, non è giusto, anche lui è cliente, ha ordinato e ha diritto al giornale. Il signore può sicuramente comprarsene uno di suo, mica è studente, lui.
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Insomma, la mia dose di caffeina mattutina si trasforma in adrenalina. Ringrazio, per una volta, che non si tratti di un espresso, così non è troppo palese che resto solo per godermi la singolar tenzone tra i due avventori. Ognuno si rifà al diritto, alla regola, ad uno schema. Tipico.
Come il controllore del treno di settimana scorsa, che non sapeva come risolvere il controverso caso di un passeggero cinese con regolare biglietto, ma che dalla tendina del menu “nazionalità” disponibile sul sito delle ferrovie tedesche aveva scelto “deutsch” per mancanza dell’opzione “cinese”. Colto di sorpresa a gestire l’entropia, il controllore ha puntato sul sempreverde “persecuzione”. Che ne sia stato dell’incazzato passeggero con gli occhi a mandorla, non saprei.
O forse come la segretaria dell’immatricolazione studenti, spiazzata dai 12 euro che le ho presentato per la carta dei servizi. Giudicata colpevole: alla domanda “hai 10,30 €?” avevo ben risposto “sí”, mica l’avevo informata dello scarto dalla norma.
Mi viene in mente, ancora, lo strambo caso del signor Frau (Frau=donna), che faceva impazzire i funzionari di mezza repubblica federale col suo inqualificabile “Herr Frau” (signor Donna), o come l’amico indiano bislaccamente battezzato “Inder” che in tedesco significa, appunto, indiano, e quindi come mai la carta di identità riporta la nazionalità al posto del nome?
Tornando a noi, il baldo giovine non si arrende e chiama in causa la cameriera. Lei prova a mediare, smezzare il giornale ha un che di soluzione ecumenica, ma niente: il signore è inflessibile e non può certo cedere sul suo diritto di lettura. Insiste per parlare col proprietario, voilá eccolo al telefono. Confabulano per un po’, alla fine il signore se ne va, e altero butta l’oggetto della discordia al giovane: «Va bene, andrò a comprarmene uno, IO».
Bene, sono pronta per sfidare le intemperie.
E dopo la pillola di teutonismo inaspettata, affronto quella che avevo previsto. Tra me e la palestra universitaria se ne sta il bosco lungo il fiume Saale, che è grosso e tumultuoso e minaccia di voler straripare ancora.
Ponte 1, ponte 2, virata dietro la collinetta. Ogni tanto intravedo altre lucine rosse lampeggiare, altri ciclisti che come fuochi fatui si inerpicano per i sentieri. Incrocio due spazzacamini, del resto è stagione: sulle varie porte condominiali si annuncia il loro arrivo, segnale inequivocabile dell’inverno alle porte.
Il bosco, si sa, è da sempre parte dell’immaginario nazionale tedesco, col suo Eichenbaum (quercia) simbolo di vigore, riconciliazione con la natura e già venerato dalle tribù sassoni. Poi anche infilato nel simbolo del partito nazista, ma preferisco pensarlo come musa per romantici e rivoluzionari, e poi luogo bucolico per le famiglie dell’era industriale.
Certo il Deutscher Wald è quasi ovunque domato, un reticolo di sentieri ben mappati, stazioni di servizio, guide per funghi fa della verde culla dello spirito teutone più una valvola di sfogo per l’uomo urbano. Ma per me, che il verde lo associo ancora ai campi tra i capannoni della bassa padana, un colore che lotta per non farsi inghiottire del tutto, questo attraversamento della wilderness tedesca ha un valore simbolico.
Alla fine niente ha posto un argine allo scempio del tempo sulla mia muscolatura: il signor “casa delle bevute” (così si tradurrebbe il suo cognome) ha decretato che ero troppo malaticcia per essere iniziata al fitness. Ahimé la combo bosco-tempra del corpo non mi è riuscita, per oggi. In compenso, visto un certo appetito, di germanica grandezza, credo che opterò per degli Spätzle a pranzo, dribblando l’offerta multi-kulti della mensa, che per oggi strizza l’occhio al Messico e all’Italia (con un inquietante “ragù di verdure POMODORIZZATO”).
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