Der Medicus, religione e scienza nel medioevo nell’ultimo colossal tedesco
di Emilio Tamburini
Dal bestseller Medicus dell’americano Noah Gordon (l’edizione italiana è di Rizzoli, 2004), dal 25 dicembre uscirà nelle sale tedesche Der Medicus.
Con un cast internazionale e la regia di Philipp Stölzl per una produzione tedesca, questo colossal girato in inglese mette molta carne al fuoco nelle sue due ore e mezza di pellicola, condita con tutti gli ingredienti necessari per soddisfare il grande pubblico con le avventure di un personaggio che ricorda un Lawrence d’Arabia ante litteram, armato di bisturi e bende invece che di spada, ma determinato più che mai ad offrirci un epos smaltato di Storia, seguendo così un filone produttivo che non sembra perdere la sua fortuna.
La vicenda ha inizio nell’Inghilterra dell’anno 1021, dove in un misero villaggio avvolto nelle tenebre dell’alto Medioevo, in cui si lavora in miniera per un tozzo di pane e vige l’autorità di un clero oscurantista, un bambino di nome Rob Cole vede morire la propria madre di “mal di fianco” – la futura appendicite – e si mette in viaggio con un guaritore e saltimbanco ambulante (Stellan Skarsgård) cominciando così ad inseguire il sogno di saper curare il prossimo, che mai lo abbandonerà.
I due instaurano un rapporto di affetto seguendo la più classica dinamica del vecchio errante solo e burbero e del giovane volenteroso che meriterà la fiducia del maestro salvandolo in più occasioni. Le loro strade si devono però dividere quando Rob ormai uomo (Tom Payne) ha notizia di terre lontane in cui vengono insegnati i misteri della medicina e decide di imbarcarsi per il medio oriente; ma in terra musulmana i cristiani vengono uccisi a vista, mentre gli ebrei sono tollerati.
Così, al modico prezzo di un’autocirconcisione nel deserto, Rob imparerà con sorprendente velocità a vivere e comportarsi come un ebreo praticante, anche grazie alla curiosa assenza di qualunque barriera linguistica – in Persia si parla, a quanto pare, un ottimo inglese. La traversata gli regala anche qualche fugace sguardo di quello che promette di rivelarsi il suo vero amore (Emma Rigby), ma una tempesta di sabbia fa strage della comitiva e lui arriva nella città di Ispahan convinto di essere il solo superstite.
Lì cambierà il suo nome in Jesse ben Benjamin e diventerà l’alunno prediletto di Ibn Sina (Ben Kingsley), grande maestro nell’arte della medicina, che noterà presto il dono particolare che il giovane porta con sé dal suo precoce incontro con la morte. Infatti ciò che distingue Jesse dagli altri allievi è, oltre all’insaziabile sete di sapere, la capacità di avvertire la fine incombente delle persone con un semplice tocco delle mani.
Un potere certo utile per un medico, che quando si manifesta richiama però troppo da vicino i “sensi di ragno” di spider-man, con annesso fermo immagine sul volto scioccato di Payne, che si rivela comunque essere la sua espressione dominante durante tutto il film – a cui fa da contraltare quella smarrita della Rigby.
Questo elemento fantasy, centrale nel trasformare le vicissitudini di Rob Cole nel compiersi di un destino, viene accompagnato da una parabola illuminista sul tema della ricerca della verità contro il dogma delle religioni, creando un un parallelo, ribadito sulla locandina del film, con la fuga dalla grigia Inghilterra alla luce abbacinante della Persia.
Questo è solo uno dei temi che vengono affrontati, oltre a quello della tolleranza religiosa, dello scontro tra potere religioso e potere politico, della lotta per il bene comune, il tutto senza rinunciare a raccontare di un amore proibito – forse l’anello più debole – e di una guerra civile. “Si sono scordati il cocco” verrebbe da dire con Woody Allen, anche se il suo commento in Manhattan si riferiva agli eccessi di una pizza non cinematografica.
Il tema conduttore è comunque non privo di fascino, e nel buio di una cantina siamo toccati dalla meraviglia di riscoprire al lume di candela come siamo fatti dentro, infrangendo un tabù che forse nell’era dello splatter non ha ancora perso la sua forza archetipica.
Forse sarebbe troppo chiedere che la problematica etica riguardo a fin dove la scienza possa spingersi per sfidare la malattia e la morte fosse stata affrontata in maniera critica, cosa che avrebbe dato al film una riflessione molto attuale. Invece il tutto si risolve in una lezione non nuova per quanto sempre valida sull’impotenza dell’uomo davanti al grande ultimo mistero, verità con cui il nostro eroe medico dovrà fare i conti.
Con molti se e molti ma, il film sembra alla fine reggersi in piedi, massicciamente sostenuto da un budget di gran rispetto. La sceneggiatura, pur cadendo nella banalità nei passaggi più drammatici, ha però anche dei momenti felici e in più di un’occasione riesce a strappare qualche sana risata.
La colonna sonora orchestrale compie il suo dovere donando solennità allo svolgersi degli eventi, mentre le ambientazioni e i costumi sfruttano con successo il nostro immaginario e i nostri stereotipi. Insomma ci viene offerto un intrattenimento non del tutto riuscito, ma godibile per chi volesse senza pretese concedersi un po’ di oriente in una Berlino natalizia, accompagnandolo con un barile di pop-corn da gustare, come il cenone, senza sensi di colpa.
Il trailer ufficiale:
Bravo, questo Emilio Tamburini…
quando viene nelle sale italiane???qualcuno me lo sa dire