Oh Boy, sogni e illusioni in bianco e nero di un ventenne a Berlino

Una scena del film
Una scena del film
Una scena del film

di Elisa Cuter
(@elisacuter)

A dispetto del titolo, Oh Boy non è la storia di un ragazzo. Fondamentalmente perché quel ragazzo non esiste: è un personaggio vuoto, un involucro dentro al quale lo spettatore (specie se coetaneo del protagonista) è chiamato a mettere se stesso.

Ogni appartenente alla generazione dei ventenni è chiamato a spiegare a se stesso quali siano gli imperscrutabili motivi che hanno spinto Niko ad abbandonare la facoltà di legge continuando a chiedere soldi al padre, quali siano le cause della sua incapacità di portare avanti la sua relazione, quali siano le aspirazioni insoddisfatte a cui apparentemente è disposto a rinunciare, quali i suoi sogni, quale il segno di cui sembra in attesa per prendere finalmente davvero in mano la propria vita.

Cosa sia, in sostanza, a fare di lui un “Penner” (un barbone, un vagabondo senza fissa dimora), come lo accusa una barista, infastidita dalla sua richiesta di fargli uno sconto sul caffè (il primo di una serie di caffè mancati, vero leit motiv del film). Niko è nessuno e centomila: non è che il prototipo (se non lo stereotipo) di una generazione un po’ disorientata, precaria, malinconica. Se per sfortuna o per vezzo non sta a noi, e neanche al film, stabilirlo.

Allo stesso tempo sarebbe impreciso, nonostante il successo clamoroso che la pellicola d’esordio di Jan Ole Gerster ha ottenuto a Berlino, sostenere che si tratti di un film sulla capitale tedesca, dove è ambientato.

Anche Berlino, che pure compare prepotente – soprattutto nel finale, in cui si  susseguono alcune  istantanee di luoghi iconici, in una inedita dimensione vuota e immobile – è mostrata in modo molto lontano dall’immagine di capitale europea dell’anticonformismo e della movida.

Ne è prova la colonna sonora jazz: inconsueta, appropriata al mood del film ma in realtà quasi anonima. L’immaginario evocato, più che berlinese, richiama New York o Parigi. Berlino, sembra dire il regista, è ormai sempre più un posto come tanti, niente di più e niente di meno che una grande metropoli in cui si trovano a interagire diverse solitudini.

E infatti forse ciò di cui questo film intende parlare, con un afflato universale che lo rende qualcosa di più di un coming of age movie rivolto a giovani berlinesi, sono i rapporti umani. Tra le persone, tra le generazioni, tra le persone e la storia, e tra esse e la città.

Rapporti naturalmente complicati, frustranti, quasi impossibili e proprio per questo buffi, surreali e assurdi. Il film, infatti, in opposizione all’estetica malinconica e in bianco e nero, è una collezione di gag comiche più o meno riuscite, in un contrasto che rimanda al Woody Allen di Manhattan (e ai suoi epigoni, come Lena Dunham e Noah Baumbach), ma anche al Jim Jarmush di Coffee and cigarettes.

I personaggi che Niko incontra nella lunga giornata che vediamo sullo schermo (dallo psicologo invadente alla compagna del liceo anoressica, dai troppo zelanti controllori della metro al vicino di casa depresso) rappresentano un campionario di umanità in cui ognuno sembra troppo concentrato sui propri problemi per ascoltare e comprendere l’altro.

Anche Niko, infatti, non si lascia avvicinare. Certo, suo padre gioca a golf, e basta questo a renderlo l’icona di uno stile di vita detestato. Ma la ribellione di Niko sembra molto poco meditata. E’ più che altro pigrizia, inettitudine. Forse una sensibilità che altri non hanno, come lascia a intendere la scena in cui si intrattiene con tenerezza con la nonna di un amico. Ma, in ogni caso, una sensibilità che lo rende semplicemente inadatto alla vita.

Una presa di coscienza dell’assurdità del mondo che invece di provocare in lui un moto di rivolta, lo confina nella pura, idiotica (o idiota?) contemplazione della propria e altrui disfatta, fino a chiudersi senza prendere sul serio la domanda più importante che gli viene rivolta: “Kennst du das Gefuehl, dass dir die Leute um dich herum merkwuerdig erscheinen? Und je laenger du darueber nachdenkst, desto klaerer wird dir, dass nicht die Leute, sondern du selbst das Problem ist?” (“Hai presente la sensazione che le persone che ti circondano siano strane, e più ci pensi più ti diventa chiaro che non sono gli altri il problema, ma tu?”).

Difficile dire se l’ultimo, amaro incontro con un vecchio ebreo, che gli racconta della notte dei cristalli, della sua fuga e poi gli muore tra le braccia, possa essere quello che farà scattare in lui la molla per uscire dall’indolenza e fare qualcosa, finalmente conscio che la sua vita non è stata nulla in confronto a quella di chi prima di lui ha lottato e sofferto. In fondo, il mattino dopo, il caffè che aspettava arriva.

(pubblicato originariamente su Effetto Notte)

Il trailer italiano di Oh Boy:

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