«Cosa possiamo imparare da Berlino»: Intervista a Manuel Agnelli

[© Sara Loreti on Flickr / CC BY-SA 2.0]
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Sara Loreti on Flickr / CC BY-SA 2.0]

di Valerio Bassan

Berlino come punto di riferimento, artistico e mentale. Berlino come città da amare e da vivere, in cui tornare a suonare presto. Berlino come modello culturale da applicare anche in Italia.

Per Manuel Agnelli, frontman degli Afterhours, la capitale della Germania è sempre stata un luogo di attrazione fatale. Per questa ragione vedere pubblicato l’ultimo lavoro in studio della band milanese sul mercato tedesco, oggi, è un motivo di orgoglio.

A proposito, com’è il bilancio di Padania a un anno e mezzo dalla sua pubblicazione?
Padania è un disco ostico per il mercato italiano, non solo perché è abrasivo ma anche perché spesso non rispetta la forma-canzone. Ciò nonostante ha avuto una grandissima accoglienza da parte della critica, vincendo diversi premi importanti. E, cosa più importante, è piaciuto molto ai nostri fan.

Come è stato recepito all’estero, fino a oggi, durante le esibizioni live?
È stato un esperimento vinto: per la prima volta da quando suoniamo all’estero, abbiamo deciso di eseguire scalette quasi interamente in italiano. Le canzoni del disco, sia a Londra che sul palco dello Sziget, in Ungheria, sono piaciute molto. Questo significa che ha sonorità fresche ed internazionali. Inoltre è un album molto divertente dal punto di vista musicale, non ci siamo ancora stancati di suonarlo e questo è per noi un grandissimo risultato.

A Berlino avete suonato due volte, la seconda nel 2011 al Magnet di Kreuzberg. Che ricordi hai di quei due concerti? 
L’ultimo live andò molto molto bene, c’era molta più gente rispetto al primo concerto, erano per la maggior parte italiani. La prima esibizione invece fu in un piccolo club scuro e fumoso. Suonammo davanti a meno di cinquanta persone, quasi tutti tedeschi. Ma fu ugualmente interessante.

Preferisci suonare per un pubblico estero o italiano?
Per noi che abbiamo un bel seguito in Italia, suonare all’estero è soprattutto un modo per confrontarsi con un pubblico straniero. Non voglio fare lo snob o lo stronzo, non c’è niente di male, ma suonare per gli italiani all’estero è semplicemente qualcosa che non ci interessa particolarmente.

[© Pierfilippo Mancini on Flickr / CC BY-ND 2.0]
Pierfilippo Mancini on Flickr / CC BY-ND 2.0]

Noi del Mitte, insieme a Megaherz Booking, organizziamo spesso serate con band italiane qui a Berlino. Abbiamo fatto suonare Dente, ora arriverà Appino, poi i Marta sui Tubi. Il pubblico è sempre molto contento, perché ha l’opportunità di ritrovare qualcosa che altrimenti, a migliaia di chilometri da casa, non avrebbe modo di apprezzare.
Certamente, capisco che per gli italiani all’estero sia una cosa bella. L’importante è comunque evitare cose troppo malinconiche e nostalgiche, come ci successe a Bruxelles: nel pubblico sventolavano bandiere italiane e la gente ci passava i foglietti con le canzoni che voleva suonassimo. Poi senza dubbio si crea qualcosa di bello e di grande per la comunità. Penso agli anni ’80 e ’90, quando gruppi come Mano Negra e Les Négresses Vertes cominciarono suonando per le loro comunità all’estero sono diventati fenomeni internazionali.

Si è da poco conclusa la prima esperienza di Hai paura del buio?, il festival che hai organizzato coinvolgendo artisti provenienti da diversi campi culturali: musicisti, illustratori, attori, performer. La prima data è stata a Torino alle Officine Grandi Riparazioni, ex officine industriali dove alla fine del secolo scorso venivano riparate le locomotive. A Berlino ci sono migliaia di spazi abbandonati riconvertiti alla cultura, in Italia invece è ancora una tendenza rara. Perché, secondo te?
Io credo che la grossa differenza fra l’Italia e il resto d’Europa sia proprio questa. Da noi le amministrazioni, piuttosto che riutilizzare gli edifici, aspettano che marciscano per poterli buttare giù e costruirci sopra qualcosa d’altro. Il perché lo sappiamo: fare così porta più soldi. In realtà, soprattutto nelle grandi città, ci sono una marea di spazi inutilizzati che amministrazione e comune dovrebbe mettere a disposizione di chi dimostra di avere la capacità di creare progetti interessanti, valorizzando la libertà della gente di esprimere arte e creatività dal basso.

Il manifesto di Hai paura del buio? ad un certo punto recita: «Noi vogliamo uscire, confrontarci, mischiarci, sporcarci e contaminarci. Diventare dei bastardi e dei meticci». La «contaminazione» tra musicisti di band diverse e tra creativi provenienti da campi artistici apparentemente slegati tra loro è stata una costante dell’iniziativa. Quali benefici può trarre la cultura da questa contaminazione?
Da un lato la contaminazione è positiva per l’ispirazione artistica, dall’altro lo è per il pubblico. L’Italia è composta da circuiti culturali chiusi dove circolano sempre le stesse idee, non è molto eccitante dal punto di vista creativo. Unire varie arti serve per alimentare la curiosità tra gli artisti e anche tra il pubblico. Bisogna ricominciare ad alimentare questa curiosità perduta. Ultimamente il pubblico italiano va a vedere soltanto le cose che conosce, delle quali si fida, cerca conforto nella cultura. Ma è cento volte più eccitante andare a vedere una cosa che non conosci; recarsi ad un concerto rock e trovarci dentro un’installazione o uno spettacolo teatrale. Poi alla fine può anche non piacerti, ma è bello correre il rischio, no?