Arte e Cultura

Dream Machine: vedere con gli occhi chiusi a Berlino

ivanafrankedi Vita Lo Russo
(pubblicato su Riprendere Berlino)

«Siediti. Chiudi gli occhi. Io spengo le luci e al mio via premi il pulsante».

E al suo via lei ha spento le luci, io ho chiuso gli occhi e ho premuto il pulsante. A quel punto in quello spazio di mezzo che sta tra le palpebre e la corteccia cerebrale, io che avevo gli occhi chiusi, ho visto cascate di latte, flash di pattern geometrici di cerchi verde acqua e rombi rossi, disturbate, talvolta, da immagini di cuori grigi, in corsa. C’è anche chi sottoponendosi allo stesso esperimento ha visto cavalli, chi ha avuto paura, chi ha riso per ore.

Pochi giorni fa, l’uno novembre, dopo mesi di attesa ho finalmente provato la Dream Machine , la macchina dei sogni di Ivana Franke, ispirata da una macchina analoga inventata negli anni ’70 dai poeti maledetti della dream (intendo beat) generation per amplificare gli effetti delle sostanze psicotrope.

Ma torniamo ai tempi nostri. La Machine è la creazione artistica più nota di Ivana, ed è il traguardo di un percorso di ricerca su luci e spazio cominciato nel 2009 con Alexander Abbushi, fondatore dell’associazione di neuroestetica di Berlino.

Ivana Franke — Waking Background (Trailer)

from lauba house on Vimeo.

La macchina è una specie di semicilindro composto da un fascio di circa 300 luci (ne esiste anche una versione più grande da 600 luci, guarda il video sopra). Lo spettatore si siede al centro, chiude gli occhi e si lascia bombardare le palpebre da impulsi luminosi intermittenti secondo un diagramma frequenziale che provoca allucinazioni visive, stati emotivi.

Io vedo un cuore, il bambino vede il cavallo in corsa, quasi tutti vedono pattern ottici che ricordano i quadri di Roy Lichtenstein visti da vicino.

L’installazione ha avuto talmente tanto successo che nel 2011 è stata ospitata durante la Biennale di Venezia dal Peggy Gueggenheim, fino ad arrivare lo scorso anno alla Deutsche Kunsthalle a Berlino. Da qualche settimana la macchina è tornata a casa, nell’atelier di Franke in Moabit. Ma ci resterà per poco. Settimana prossima va di nuovo in giro. Destinazione Emirati Arabi, dove anche sceicchi e petrolieri potranno provare a vedere cose con gli occhi chiusi.

Ivana da Zagabria, assieme a Paolo Bottarelli dal lago di Garda e Reynold Reynolds dall’Alaska, fa parte di quel gruppo di artisti di neuroestetica che a Berlino hanno trovato casa. La prima indaga la percezione dello spazio attraverso le luci, il nostro Bottarelli si occupa della percezione di un fenomeno attraverso i ricordi, Reynolds studia le manifestazioni dell’esistenza, attraverso la macchina da presa.

Tutti producono cose belle e stanno attenti ai processi neurologici che queste innescano nella mente degli spettatori. Giocano seriamente. Giocano col cervello.

E ieri dopo essermi lasciata “giocare” dalla Dream Machine, ho sperimentato prima una circonferenza mobile (“in Circle”: un fascio di luce proiettato in una stanza buia su un foglio di plexiglas diventa una circonferenza che varia le sue dimensioni al variare della posizione dell’osservatore); e poi un video di fasci di bianco e nero (Focal Slowing: il variare dello spessore delle linee crea nella vista dell’osservatore nuove immagini, parassolamente anche linee perpendicolari).

Abbiamo parlato a lungo io e Ivana. Lei mi ha raccontato che da bambina voleva studiare Matematica, ma poi all’università ha scelto l’arte. Arriva da Zagabria, ha 39 anni che sembran la metà e la pelle delle fate. Ha vissuto in Giappone e rappresentato nel 2004 e nel 2007 la Croazia alla Biennale di Venezia (qui l’installazione nel padiglione veneziano dal titolo Fraemworks realizzato con lamelli di plexiglass cangiante http://vimeo.com/30959613).

Poi ha deciso di trasferirsi a Berlino dove per conto di Abbushi ha frequentato l’Institute für Raum Experiment, dove si è appassionata di luci e spazio. Sa quello che vuole, ma sa anche ascoltare. «Decido alcuni stimoli visivi sulla base di informazioni tecniche, matematiche, ingegneristiche o architettoniche, ma poi mi arrangio sempre con l’intuito. Per questo tu vedi i cuori e qualcun altro vede i cavalli nella mia Dream Machine», racconta.

E alla domanda se vorrà mai mettere a disposizione la macchina per curare forme di disagio mentale o per innescare la produzione di serotonina nella testa della gente, risponde timidamente di no. Per paura che le sue idee possano trasformari in commodity. In merci vendute su Ebay. «A me l’arte che non è ricerca non interessa. Sono qui a strutturare bei disegni nella testa della gente». E per ora ci sta riuscendo benissimo.

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