TEUTONICHE SCHEGGE – Pensiero Estivo
Prendo commiato dalla mia ormai beneamata Halle:
ad agosto solo anziani e bambini dribblano le fameliche zanzare del dopo piena e cercano frescura in ogni fontana, laghetto, rivolo. Fra di loro qualche turista alla ricerca dei fasti di Lutero e dell’Illuminismo sassone, o qualche enofilo che si è spinto nel baluardo viticolo più settentrionale del Paese. Nel picco delle vacanze estive, la statua di Händel domina pacata la bella piazza del mercato e tutti gli edifici sono impacchettati con la speranza di trovare i fondi per ridar loro il lustro d’un tempo. Qui ogni tetto è un capolavoro di volute che anche i bombardamenti della guerra ha risparmiato, ma dopo il crollo del Muro da Halle son fuggiti in tanti, e arrivati solo studenti e ricercatori, anima brulicante ma che porta poca pecunia per ristrutturazioni e manutenzioni.
Mi attende un weekend in terra di Prussia, nella grassa NRW o Nordrhein Westfalen, a Bad Oeynhausen. Terra piatta, con qualche ondulazione all’orizzonte che i tedeschi già chiamano “collina”, dove ancora si parla il Plattdeutsch, simile all’olandese. Il susseguirsi di paeselli ed industrie mi ricorda la mia Heimat: al posto dell’Adda scorre placida la Weser e le ciminiere si mimetizzano fra casette coi tetti a spiovente e assi di legno anzichè fra villette a schiera e schiere di palazzi. Non c’è un corrispettivo italiano di “Heimat”. Se la “Vaterland” è la patria (Vater=padre), nome altisonante che ciclicamente autorizza a sfanfarate e gloria, la “Heimat” è la piccola patria, la casa (Heim), il luogo natio. Qualcosa di molto più intimo, che ricorda la casa del nonno e i suoi racconti della Guerra, la pizza da Luigi a 5 E il sabato pomeriggio e il parco dove si è cresciuti suonando la chitarra con il figlio del kebabbaro turco. Cosí me lo spiega H., l’amico presso cui sto.
Per 3 giorni mi sono sentita un po’ mamma orsa, un po’ sorella aggiunta dei due fratelli T.: il piccolo è un metallaro di due metri e zero quattro, con chioma direttamente proporzionale, il grande, mio collega, ha qualche cm in meno in senso verticale, ma compensa con un apertura alare degna dell’aquila prussiana, che qui guata arcigna da ogni angolo. H. è membro dell’Heimatverein, le associazioni di storia locale. Mi porta a vedere la statua di Federico Guglielmo III, pomo della discordia per cui sia lui, sia suo padre, insegnante di storia al liceo, hanno scritto lettere aperte ai giornali e al sindaco. Il Federico Guglielmo in questione ha fondato la cittadina (con il nome di Königliches Bad Oeynhausen) dopo che, come vuol la leggende locale, seguendo l’allegro grufolar dei suoi maiali, un contadino scoprì le sorgenti termali.
Da allora, la città è una Kurstadt, ad ogni incrocio c’è una clinica od un centro benessere, tutti rigorosamente in severo stile imperiale, tanto che mi immagino nugoli di mogli di ufficiali prussiani mollemente passeggiare fra i sontuosi parchi e i loro pargoletti giocare al soldato mentre i loro padri s’impegnavano ad allargar confini a suon di baionetta.
Federico Guglielmo la città l’ha pure fondata, ma proprio liberale non fu, ed anzi represse nel sangue vari moti romantici. Ed è proprio in quel periodo della storia tedesca che la Heimat divenne un principio fondante dlel’identità, un movimento che poi, raggiunta l’unità nazionale, si rafforzò per cercare di sentir propria un’entità politica che era frutto di colpi di cannone e firme attorno ad un tavolo.
A mollo in un laghetto, osservo gli immancabili calzini bianchi o color carne infilati nei sandali: da qualche parte ci dev’essere un regolamento sull’uso del sandalo, e toccherebbe spiegare che possono essere portati anche senza calze: loro preferiscono, quando si sale sopra i 25 gradi, pascolare a piedi nudi su ogni superficie calpestabile, che sia la metro, un negozio o una qualunque strada. Al crucco piace la natura, seppur la natura di casa, domata: lo specchio d’acqua dolce raggiungibile in bici, il sentiero che si snoda fra i boschi in periferia (il Wanderweg), sdraiarsi in costume adamitico nei parchi cittadini. La Heimat, del resto, comprende anche un certo, romantico affetto per tutto ciò che era la natura germanica, per preservarla dall’industrializzazione che si temeva selvaggia: il buon tedesco in settimana lavora, probo spirito borghese, e nel weekend scova sempre nuovi angoli verdi dove poter andare a funghi e grigliare.
Certo addentrarsi nel concetto di amor patrio e fedeltà al borgo natio è un campo minato: vengono in mente non tanto gli artigli dell’aquila prussiana, quanto i gli uncini della croce nazista.
Dopo una partita a basket, dove i miei stratagemmi latini nulla possono contro l’ariano +30 cm del mio sfidante, H. mi mostra una Stolperstein, una piastrella dorata che ricorda la deportazione in un Lager di un ebreo, omosessuale, rom, oppositore politico qualunque, posta davanti a quello che era l’uscio di casa loro. Mi sembra che ogni tedesco sia passato per gli ingranaggi ben oliati della “Vergangenheitsbewältigung”: dissezionare il passato nazista, guardarne i mostruosi monconi pezzo per pezzo, ingollare la responsabilità e – si spera- farsi gli anticorpi contro un eventuale colpo di coda. L’ipersensibilità teutone a tutto ciò che è anche solo una velata, goliardica allusione al nazismo contribuisce allo stereotipo di gente inflessibile, ma fra loro, i fratelli T. e gli amici ogni tanto si concedono addirittura qualche battuta. H. mi sussurra “vedi, per quanto ci azzardiamo a riderci sopra, è meglio avere qualcuno dell’Asse a sentirci, così capisce e non travisa”.
Chissà. Penso ai ragazzi di Salò eroi come i partigiani, al Duce burbero statista, ma regolatore di treni, e alla bella abissina sedotta a suon di iprite e altri asfissianti, e mi chiedo se non toccherebbe anche a noi guardare in faccia quel che fu senza far spallucce con nonchalance.
Morti e soprusi del passato, si sa, turbano meno la coscienza di quelli ancora tiepidi nella memoria collettiva, cosí preferisco passare al militaresco museo della storia prussiana, lasciando un pugno di euro per comprare una targa con l’aquila imperiale e una cartolina con gli ipse dixit di Federico il Grande.
Al rientro, intravedo la statua del Kaiser Guglielmo alla “Porta Westfalica”: qui si incrociano la Weser e il Reno, un po’il Piave di quassù. Il Kaiser guarda in cagnesco verso la Francia, nemico di sempre, incurante della canicola quasi italica che prostra i suoi concittadini. Questi, con l’Heimat nel cuore, si rifugiano al WEZ, supermercato regionale, avventandosi su salsicce turinge, feta greca, pomodorini spagnoli, humus libanese, sushi giapponese. Anche Luigi, il pizzaiolo, pensa alla Heimat: il suo locale è tappezzato da foto di una Calabria che non c’è più e bandierine Schwarz-Rot-Gold.
Io, ormai riapprodata in terra bergamasca, medito su quale sia la mia “Heim”, che non è la “Haus”, un luogo definito da pareti o segni su una mappa. In sottofondo mi rispondono i cori della Festa della Lega, padroni a casa loro: l’afa non scalfisce il celodurismo.