Arte e Cultura

Differenze tra università italiana e tedesca: seconda parte

Freie Universitaetdi Oriana Poeta

Seconda parte dell’intervista a Gherardo Ugolini sulle differenze tra università italiane e tedesche. Ugolini è oggi professore di Filologia classica all’Università degli Studi di Verona, ma, fino a pochi anni fa, era docente presso l’università di Heidelberg e la Humboldt-Universität di Berlino. Lo intervistiamo per capire affinità e differenze tra le università italiane e tedesche, in particolare nell’ambito umanistico.

Leggi la prima parte qui.

Cosa pensa della modalità del seminario, molto comune in Germania?

La considero un’ottima forma di insegnamento, sempre che il seminario riesca bene. La riuscita è data da una combinazione di più elementi, non facilmente combinabili tra loro. Un seminario ben organizzato deve prevedere un percorso e una scaletta precisi, presuppone dei materiali di lavoro accuratamente scelti dall’insegnante. Il lavoro di preparazione, gestito esclusivamente dal docente, è un momento fondamentale. Agli studenti spetta poi il compito di partecipare attivamente e di prendere il posto in cattedra. Dovrebbero essere in grado di sviluppare, di volta in volta, i relativi argomenti, di discuterne insieme e di formulare nuove tesi. Se tutto ciò riesce, al professore non resta che commentare e aggiungere brevi spiegazioni.

In questa maniera il professore assume un ruolo marginale. Si ha quasi l’impressione di non imparare molto, proprio per la mancanza di spiegazioni vere da parte del docente. È come se mancassero i contenuti, o sbaglio?

Certamente sussiste questo rischio. Il seminario ideale non lo si riesce a realizzare facilmente. Non tutti gli studenti sono in grado di gestire al meglio e non tutti i professori riescono a guidare efficacemente. La concezione che c’è dietro a questa modalità didattica è quella teorizzata all’inizio dell’800 da Wilhelm von Humboldt e che si riassume nella formula “Das Lernen des Lernens”. Qui si impara ad imparare. Nella tradizione della didattica accademica italiana sono privilegiati i contenuti rispetto alla metodologia della ricerca e dell’apprendimento.

E cosa pensa dell’esame orale, tipicamente italiano?

Penso continui ad essere un eccellente momento di scambio tra docente e studente. Entrambi possono da questo dialogo imparare. Gli studenti italiani abituati a questa tipologia sono generalmente più bravi rispetto ai tedeschi, che risultano, invece, vincenti nello scrivere un saggio o una tesi. Tutto parte dalla differente formazione scolastica. Gli italiani, ad esempio, li trovo più vivaci, creativi, capaci di fare collegamenti interdisciplinari: tutto ciò è frutto di un buon liceo classico o scientifico. Ovviamente, mi riferisco sempre al mio campo, quello filologico-letterario. Nelle scienze naturali le cose potrebbero essere diverse.

Trovo che una differenza fondamentale sia quella relativa al sistema bibliotecario, condivide?

Sì, sono assolutamente d’accordo. In Italia siamo ancora indietro. Quando sono tornato nel 2008 sono rimasto molto colpito dal fatto che per accedere alla consultazione o al prestito di un libro si dovesse ancora compilare a mano una scheda cartacea. Così come trovo aberrante che per il prestito ci sia un limite massimo di cinque libri per volta. Nelle biblioteche di Berlino il limite è trenta. A proposito di biblioteche racconto un aneddoto. Quando ero dottorando a Monaco, nei primi anni ’90, era possibile prendere dei libri in prestito per il weekend (all’epoca, diversamente da oggi, le biblioteche degli istituti universitari non erano aperte il sabato e la domenica.). La procedura era di fatto autogestita: l’interessato doveva semplicemente annotare su un registro il suo nome e la segnatura del volume, senza altri controlli. Una volta feci notare alla bibliotecaria quanto fosse alto il rischio che qualche libro venisse rubato. Mi fu risposto che la biblioteca metteva in conto di perdere qualche volume, ma considerava tale perdita uno svantaggio, ampiamente compensato dal vantaggio che i libri circolassero di più. Ecco, in Germania le biblioteche (ormai quasi tutte a scaffale aperto) sono fatte perché i libri circolino. Da noi in Italia sembra siano concepite più per custodire i libri che per farli circolare. È un po’ la stessa differenza che si riscontra a proposito delle università. Quella tedesca è tendenzialmente più aperta. Non sorprende che a un seminario ci siano degli esterni che hanno interesse per l’argomento trattato e intendono partecipare più o meno regolarmente. In Italia occasioni del genere si vivono raramente.

In quale altro ambito il nostro stivale dovrebbe prendere esempio dalla landa teutonica?

Certamente nei meccanismi di selezione inerenti alla carriera accademica. In Germania si favorisce in tutti i modi la mobilità accademica. Si spostano gli studenti che, raramente, concludono il ciclo di studi nella medesima università, e si spostano molto anche i docenti. Per norma di legge un professore non può avere il suo primo incarico nella sede universitaria in cui ha conseguito l’abilitazione. In Italia avviene il contrario: localismo e fedeltà prevalgono a scapito della mobilità. Ancora oggi è frequentissimo il caso di docenti che compiono l’intero percorso di carriera fino alla pensione lavorando, sempre e soltanto, nell’ateneo in cui si sono inizialmente formati. C’è un ulteriore aspetto da considerare. In Germania i professori a 65 anni sono costretti ad andare in pensione, e se spengono la 65esima candelina nel bel mezzo di un semestre devono lasciare il lavoro a metà. D’altro canto questo vincolo garantisce un più celere ricambio generazionale. Dunque, poca flessibilità, massima precisione. Siamo in Germania d’altronde!

Condivide la decisione di uno studente italiano di proseguire gli studi in Germania?

In base alla mia esperienza – come studente e come docente – consiglierei di completare l’intera laurea magistrale in Italia. Nella media i laureati che sforna l’università italiana sono ottimi prodotti, sicuramente competitivi in ambito internazionale. Ritengo, invece, altamente formativo un dottorato di ricerca da svolgere in Germania o altrove all’estero. L’auspicio è che gli attuali dottorandi italiani, dopo aver maturato diverse esperienze all’estero, possano accedere al nostro mondo accademico in modo tale che, forti della ricchezza acquistata fuori casa, contribuiscano a migliorarlo.

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