Berlino, la succursale italiana

Cinzia è stata berlinese per un lungo periodo, poi è tornata a vivere in Italia, dove ha fondato un’associazione che si occupa di Open Knowledge, ha lavorato con il Fab Lab Firenze, ha sostenuto progetti di Robotica per bambini. Oggi, per lei, all’orizzonte potrebbe esserci di nuovo Berlino. Questa è una sua interessante riflessione sul cambiamento vissuto dalla capitale tedesca in questi anni, sull’immigrazione, sugli stereotipi, sulla felicità dell’emigrante. E sull’Italia.

LA SUCCURSALE ITALIANA
di Cinzia Colazzo

Tempo fa ho abitato a Berlino-Kreuzkölln.

Mi ricordo molto bene di quel periodo. Ho una memoria emotiva precisa collegata alla libertà di essere e fare come più mi piaceva, di bere una birra sulla spiaggia della Badeschiff, di fare la nudista allo Schlachtensee, di provare nuove pizzerie con i miei amici italiani, di stare seduta in mezzo ai tedeschi nel bar Ringo sotto casa a seguire l’amatissimo serial TV della domenica sera alle 20.15, senza sentirmi né estranea né coinvolta – uno stato perfetto che richiede un’esatta misura di distanza. Ho però anche una memoria “sotterranea” che è come lo sfondo di un incubo, un sottopassaggio buio in cui transito senza vedere la luce, e mi trovo lì perché mi ci sono ficcata da sola, credendo di poter indossare un abito diverso senza procurarmi lesioni interne, come se un Paese straniero si potesse abitare mantenendo la stessa foto sulla carta d’identità.
Di quel periodo ricordo le parole dei bambini della comunità italo-tedesca, la lingua del gioco, la lingua dei rituali. Sintassi tedesca e parole italiane, verbi italiani e coniugazioni tedesche, parole del cibo in italiano, istruzioni e ordini in tedesco: – Zähne putzen! Ricordo che pensavo a questi ibridi, bambini ibridi, cultura ibrida, lingua sporca. Pensavo alla lingua da salvare. A me in quegli inverni lunghi non venivano più parole belle, parole importanti, parole piene e sonore, non mi veniva più un verso di poesia.
Oggi penso che allora sbagliavo nel considerare quei bambini degli ibridi, non allevati nella cultura italiana e non propriamente nativi della cultura tedesca, come se non fossero né carne né pesce. A qualche anno di distanza, posso dire questo: quella generazione “è” un fenomeno specifico, non esprime una mancanza da una parte e una lacuna dall’altra, ma una dimensione demografica nuova, in sé compiuta, originale. Ho cominciato a pensare che quei giochi linguistici non siano effetto di interferenza, di disordine, ma di una competenza piena. Quei bambini sono nati in una zona comune fra due culture, dai confini sfumati e integrati, e sono un popolo nuovo.
Ripenso a molte altre cose di quel periodo. Penso che alcuni italiani lasciano le Langhe, il Tarantino, le Isole con un rancore profondo verso l’immobile orizzonte, e partono credendo che l’Italia sia quella, l’Italia dell’individualismo e delle donne sui tacchi 12, delle passeggiate domenicali e degli annunci mortuari, senza sapere che esistono altri civilissimi Comuni dove le mamme condividono, i bambini hanno indumenti comodi o di seconda mano che possono sporcare, le scuole coinvolgono i genitori in progetti partecipativi, nei parchi ci sono bar informali e biblioteche che propongono letture all’aperto, gli artisti sperimentano e modificano il territorio urbano. Certo, sono movimenti che serpeggiano e sfarfalleggiano su uno sfondo dolcissimo e grottesco, lo scenario di un paese in miniatura nelle gallerie di un luna park.
Penso a quegli Italiani all’estero che sulle pagine social parlano solo di politica italiana, come se il filo con il loro Paese non si fosse mai interrotto, come se il loro centro d’interesse fosse rimasto lì. Penso a quegli Italiani che si affannano a ricostruire, ingrediente per ingrediente, molecola per molecola, i sapori della propria cucina, facendo finta che sia possibile trasferire gli esatti dati sensoriali, il carsico ed il salmastro. Percepisce la nazione Italia la devozione dei suoi fuoriusciti? Sa il Belpaese dalla luce dorata e violetta, terra perfetta per le vacanze, quanto fedeli gli siano queste forze tenaci e vitali che impiegano il loro ingegno per portare avanti un Paese altro, a cui consegnano i propri figli? Una fedeltà sentimentale, conflittuale, e anche astratta: astratta perché, quando si è all’estero, la percezione del proprio Paese non corrisponde alla fluida realtà, non si aggiorna.
Oggi mi trovo in vacanza al Sud, sullo Ionio, con i sensi spalancati: luce ampia e assoluta, aria sottile e ventosa, mare cristallino; dune. Appena m’immergo nel sole della Magna Grecia, viene a galla la ragazza che ero. Da questo perfetto avamposto, a quattordici anni, vigilavo sull’orizzonte, spiegando le mie vele verso Nord, verso le case e le cattedrali con i tetti a punta. Per la mia sensibilità acerba, Rotterdam o Amburgo non facevano differenza, erano un’altra densità e ciò bastava. Trascorrevo ore a leggere i romantici tedeschi, ad ascoltare laWinterreise, suonavo Beethoven, leggevo Thomas Mann. Non c’era molto altro da fare. Da qui, tutto era possibile. Sognavo di avere in bocca quella lingua, di andare nelle università tedesche, di vivere gli inverni nordeuropei.
Vent’anni dopo, da questo stesso lembo di terra, quei sogni, tutti avveratisi, hanno l’antico sapore letterario, l’aperta malinconia delle terze schubertiane, la felicità di meridiani e paralleli da solcare. Credo che sia nella morfologia dello sguardo, quando si sta su uno scoglio come gli antichi Greci, ricevere dall’orizzonte l’invito a partire, con un carico di idee da barattare. Dolce è ancora lo slancio a migrare, da questa piazzuola di sosta bianca e salmastra, terragna, verso il Paese dell’Idealismo. Se però mi distraggo dal sogno e mi ripenso a Kottbusser Damm, nel lungo corso di negozi e Imbiss senza tracce di sentimento estetico, questa immagine da sola come un sale in una reazione chimica fa precipitare il desiderio.
Per tornare a vivere a Berlino, dovrei maturare aspettative più spicciole e non lasciarmi disturbare dalle minime dissonanze. I tedeschi sono avari? A volte, è vero, si ha la sensazione di non valere abbastanza per meritarsi un pasto generoso quando si è loro ospiti. Ricordo che una volta un’amica tedesca mi sgridò seriamente, perché alla tavola a cui io l’avevo invitata, a suo dire la molteplice offerta di cibarie confondeva le idee e le faceva perdere l’appetito. Comunque, sono un popolo economo e sensato, rispetto ai consumatori dai carrelli stracolmi di merci destinate a scadere.
I tedeschi hanno una visione stereotipata degli italiani? Spesso, è vero, è difficile non irritarsi al loro drammatico gesticolare mentre parlano di pasta e “bell’Italia”, come se questi concetti non potessero sussistere senza sottotitoli mimati. Sono un popolo solerte nel cogliere in fallo gli altri membri della comunità e resistenti alla simpatia umana? Può essere, ma finalmente qualcuno che sa dove sia la verità. Le tedesche prendono sempre in giro noi italiane perché ci teniamo ad avere i capelli in ordine e stirati? Certo, per loro siamo tutte uniformate e conformate, vogliamo mettere i capelli per metà neri e per metà rosa. I tedeschi però ci amano profondamente? Sicuro, sai che piacere essere presi di mira dai fan del Chianti che appena scoprono che vivi a Firenze hanno quasi un orgasmo.
No, se dovessi tornare a Berlino, non mi lascerei distogliere dalle irritazioni e punterei su un progetto personale, sulla fiduciosa prospettiva di poter contribuire ad un “popolo nuovo”. Mi riproporrei di sostenere la comunità italo-tedesca come popolazione a sé, di aprirmi alle cento nazionalità che Berlino accoglie, di interessarmi alla politica del Bund. Da tempo in me gli sciocchi attriti iniziali sono stati lubrificati, e a lamentarsi delle provinciali quisquilie si fa la figura dei livornesi che dicono male dei pisani. L’asse di trasloco Roma-Berlino è ridicolo rispetto ai tentativi extracontinentali di svolta biografica. Il mondo è grande e terribile, diceva Gramsci, e ormai Berlino è una succursale italiana.

1 COMMENT

  1. La più grande differenza tra Noi e Loro è che Noi ridiamo a certe cose che Loro non ci riderebbero mai e Loro ridono a certe cose che Noi non ci rideremmo mai.

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