Atelier Awash, a Berlino la moda italiana diventa 100% ecologica
di Valerio Bassan
Fuori dalla porta del suo atelier di Max-Beer-Straße, nel centro di Berlino, Davide Grazioli indossa una camicia grigia, dal taglio morbido, e un paio di jeans stretti, rigorosamente senza sabbiature; nulla di strano, almeno in apparenza. Eppure, c’è qualcosa che differenzia i suoi vestiti da quelli di tutti gli altri. «Sono più puliti», sintetizza efficacemente Grazioli. «Non ci sono macchie di sangue, sopra». Il sangue è (anche) quello dei lavoratori del Rana Plaza, l’edificio di otto piani crollato lo scorso 24 aprile a Dacca, in Bangladesh, travolgendo e uccidendo oltre 1100 operai, tutti impiegati in modo intensivo nella produzione tessile per i grandi marchi internazionali. Come Benetton, che svolgeva parte della produzione proprio nel precario stabilimento asiatico, e che negli ultimi giorni ha avviato una partnership con una Ong per aiutare i familiari delle vittime.
Nell’ambito della produzione tessile, le condizioni di lavoro sono spesso assai precarie. L’episodio avvenuto in Bangladesh, ricorda Grazioli, non è un caso isolato. «Per riuscire a rifornire l’industria internazionale con tessuti e capi confezionati, le aziende sfruttano le persone e distruggono l’ambiente. Il cotone, da solo, assorbe il 25 per cento dei pesticidi utilizzati ogni anno a livello globale, e provoca più di un milione di morti. Il tutto, per fare arrivare il cotone alle multinazionali della moda al prezzo più basso possibile». Così, l’italo-berlinese ha sviluppato una propria casa di moda, puntando tutto su prodotti e materiali biologici ed ecologicamente sostenibili. Oggi i suoi vestiti rispettano le certificazioni GOTS, Global Organic Textile Standard: il cotone utilizzato viene prodotto in Toscana, da agricoltura biologica; le stoffe sono cucite a mano da una sarta italiana, e l’intera produzione avviene a bassissimo chilometraggio; i bottoni dei pantaloni e delle giacche sono in corozo; i colori sono ottenuti attraverso tinture vegetali, come acacia, indaco e curcuma.
Un ciclo produttivo che il 41enne milanese ha progettato e costruito negli ultimi anni, quando alla sua decennale carriera artistica ha cominciato ad affiancare una forte spinta concreta. «Stavo realizzando degli alberi, ricamandoli sul modello di alcune opere indiane, e per farlo utilizzavo il cotone commerciale, comprato in merceria a basso prezzo. Poi ho scoperto l’effetto che i concimi, i pesticidi e le condizioni di lavoro necessari per produrlo hanno sulle popolazioni del sud del mondo, e mi sono fermato a riflettere. Non potevo far finta di niente». Così Grazioli ha cominciato, tra una mostra e l’altra, a progettare e realizzare capi d’abbigliamento biologici e sostenibili al cento per cento. «Ma non faccio öko-mode, come viene chiamata qui in Germania, che è una cosa banalissima e indesiderabile. La mia è una moda etica e bella allo stesso tempo».
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