Intervista a Vito Palmieri, il regista italiano che ha commosso la Berlinale
di Oriana Poeta
Alla 63esima edizione della Berlinale quest’anno non compare nessun film italiano in concorso nella sezione principale. L’Orso d’oro di Cesare deve morire, conquistato l’anno scorso dai fratelli Taviani, sembra averci dato fin troppo onore per essere nuovamente rappresentati. Ad essere selezionato nella sezione Generation c’è, però, un corto tutto made in Italy.
Matilde, cortometraggio in concorso nella sezione Generation, è diretto dal giovane regista Vito Palmieri, originario di Bitonto, che incontriamo dopo aver visto sette cortometraggi, provenienti da tutto il mondo: Indonesia, Corea, Cile, Iraq, ecc.
Dopo una carrellata sui diversi Paesi che, attraverso brevi storie, regalano uno spaccato delle proprie vite quotidiane, arriva Matilde. La provincialità italiana in questo corto non viene percepita. Una storia, quella di Matilde, che ben si presta ad un festival internazionale. Come l’ha ideata?
Il corto mi è stato commissionato dall’AGFA, Associazione con genitori figli audiolesi. Inizialmente non avevo chiaro il soggetto. L’idea è nata dall’incontro con il padre di Matilde, il quale mi ha parlato della classe della figlia, molto particolare come si evince nella scena finale. La figura del maestro l’ho scelta successivamente, basandomi su un aneddoto di un mio amico, anche lui sordo come Matilde. È un corto che a differenza di tanti altri nasce proprio dal finale.
La storia di Matilde paragonata alle altri sei, viste stamane, è una delle poche che regala un finale, una soluzione. Non c’è spazio per l’immaginazione, se non quella di Matilde che intuisce come affrontare le sue difficoltà: non poter leggere il labiale, essere continuamente disturbata da una classe fin troppo rumorosa. Una bambina che fa tutto da sola senza chiedere aiuto a nessuno.
Si, è proprio qui la forza di questa storia. L’autonomia di Matilde, la sua capacità di trovare una soluzione, il lavorarci giorno dopo giorno raccattando le palline da tennis, rubando le forbici dalla parruccheria della madre, rappresentano una sorta di vittoria finale.
Com’è stato girare con attori non professionisti e che per primi vivono il disagio della sordità?
È stata una bella esperienza. Due giorni che mi hanno regalato calma, tranquillità. Di solito quando si gira c’è sempre una grandissima confusione, specialmente, quando si è costretti a girare in spazi piccoli, come una classe scolastica. È stato piacevole avere un clima quasi silenzioso in cui si doveva parlare piano e singolarmente.
Grazie mille per aver scelto palline da tennis e due tenniste anziché palloni e calciatori.
Si, basta con Italia e calcio. (sorride) Diamo onore ad altri sport e, in particolare, al tennis femminile, di cui in Italia possiamo essere, davvero, orgogliosi.
Pensa di vincere l’Orso di cristallo, dedicato alla sezione per la quale compete?
No, assolutamente no. Stare qui rappresenta per me un importante traguardo. Essere stati selezionati alla Berlinale e, dopo pochi giorni, essere contattati per altri festival in Brasile, Stati Uniti d’America è già una bella soddisfazione.