Tony Clifton Circus: fare ridere è una cosa seria

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di Luigi Huober

Nella cornice spettacolare del famoso club Kater Holzig è stato presentato nel mese di Dicembre uno spettacolo  unico, che potremmo definire di “comicità estrema o meglio di estremismo comico, tra nonsense e performance provocatoria”. In scena erano presenti, in occasione del programma “Kater Kultur” i Tony Clifton Circus: due clown, un musicista, un mucchio di oggetti ed un traduttore in calze a rete per il pubblico tedesco. Un mosaico di libertà ed estrema frustrazione, che colpisce il pubblico come un pugno in pieno volto e che allo stesso tempo invita il pubblico a ricambiarlo, quel pugno.

Nato nel 2001, il Tony Clifton Circus propone un modo di fare clown diverso dal solito, uno stile che potremmo definire allo steso tempo denigratorio ed esaltante di quella che è la comicità tipica del clown moderno. L’origine del gruppo, attivo, nella composizione attuale, da oltre dieci anni, è indissolubilmente legata alle gesta del comico americano Andy Kaufmann, il cui personaggio forse più imprevedibile è proprio lo stesso Tony Clifton, cantante italoamericano di (poco) successo, che raggiunge l’apice della sua carriera duettando (a detta degli stessi Tony Clifton Circus) con Dean Martin sulla via del tramonto nei casinò di Las Vegas.

Ed è proprio l’imprevedibile talento aggressivo di un artista come Kaufmann che ha ispirato le gag irresistibili, inaccettabili, a volte anche crude dei TCC. Se l’esplosione di un ananas e il lancio di uova marce può essere visto come un gesto di condivisione con il pubblico, la violenza presente nella tortura di un peluche di cane o di una bambola (già morta) dalle sembianze umane, si propone come un tentativo di scioccare il pubblico, e, allo stesso tempo, di fargli comprendere quanto esso sia assuefatto alla violenza e come essa sia diventata una cosa che appartiene alla quotidianità di tutte le persone. Infatti, nello show “Hula Doll”, Nicola Danesi,  il clown “parlante” dei Tony Clifton, parla di nascita, vita e morte come elementi imprescindibili dell’esistenza umana, che viene definita “noiosa”.

Nicola Danesi de Luca, Iacopo Fulgi ed Enzo Palazzoni sono accompagnati dalla presenza scenica e dalla traduzione in tedesco del regista teatrale Werner Waas, che, nell’ambito della sua collaborazione con gli artisti italiani, interpreta in un altro famoso show dei Tony Clifton un improbabile Babbo Natale punk portato alla gogna. Il Mitte ha incontrato Waas, il quale da pochi mesi si è trasferito a Berlino per continuare la sua attività artistica e proporre nuove interessanti idee.

Werner tu sei un “italiano” un po’ particolare: sei tedesco ma hai vissuto forse gli anni più significativi della tua carriera in Italia.

Già, non so nemmeno io bene cosa sono. Da quando sono qui a Berlino mi sento parecchio italiano. In Italia mi sono sentito un po’ più tedesco e prima ancora nella provincia bavarese della mia infanzia ero alieno anche lì. Ciononostante questo mio essere bavarese è la prima cosa che salta all’occhio, o meglio all’orecchio, per chi mi conosce qui. È buffo. Mi chiedo che razza di appartenenza culturale possano ritrovarsi addosso i miei figli, nati da mamma italiana di origini semifrancesi e papà bavarese italotedesco. Devo dire che vorrei proprio che si sentissero a casa da qualche parte, ma forse è già tardi per questo. Siamo tutti un po’ sradicati.

Quali sono i lati positivi e negativi di vivere in questa condizione, secondo te?

È bello saper parlare tante lingue, conoscere più culture, ma vedo anche che in cambio si deve rinunciare a qualcosa che è legato al senso del nostro essere qui su questa terra, qualcosa di importante. Lo vedo dal fascino che esercita su di me, e anche sui miei figli, una vita come quella del mio amico di infanzia Alois. Lui ha scelto di continuare con la fattoria che gli ha lasciato suo padre, che l’ha avuta da suo padre, con quegli ettari di terra che stanno sempre lì e producono. Certo, non si può avere tutto, e come lui invidia un po’ me così io invidio un po’ lui, e ognuno fa quello che può per dare un senso alla propria vita.

E tu, il “senso”, dove l’hai trovato?

La mia strada è stata quella del teatro fino ad oggi, la sua quella dell’agricoltura, ma non è detto che non cambi prima o poi. Comunque sì, è vero, la mia formazione professionale e anche la maggior parte delle cose che ho fatto sono avvenute in Italia. Sono arrivato a Roma da ragazzo, non parlavo una parola d’italiano, ho iniziato da zero, facendo le pulizie, lavorando in biblioteca. Poi le prime assistenze in teatro, l’incontro con artisti importanti, la nascita di un proprio gruppo, il lavoro da regista in giro per l’Italia fino agli ultimi anni che mi hanno visto impegnato nella nascita di un centro culturale a Lecce, le Manifatture Knos.

Com’è il tuo rapporto con il lavoro?

Ho fatto tante cose, sono stato dentro molti progetti, e non sono mai stato da solo. Non so se questo sia un pregio o un difetto, ma personalmente ho sempre avuto bisogno di una dinamica di gruppo per lavorare, il bisogno di quella particolare tensione utopica che sprigiona un gruppo che lavora insieme per progredire in una direzione comune. È una cosa legata al senso che il lavoro ha per me. Io non sento nessun bisogno di esprimere me stesso, non saprei che dire, lasciato al mio me stesso mi inebetisco. Ma se parliamo del mondo che c’è fra te e me, e che possiamo scoprire com’è fatto solo giocando, allora sono nel mio elemento, posso divertirmi, sorprendermi. È forse il motivo per cui ho finito per fare teatro e non il pittore o lo scrittore per esempio… sono un creativo di riflesso.

E con il Tony Clifton Circus, quando è cominciata?

Con i Tony Clifton lavoro fin dal 2008, anche se li conosco da molto prima, da quando eravamo impegnati entrambi, loro e il mio gruppo di allora Quellicherestano, nei vari progetti della rete romana area06. Sono stati loro a scoprirmi come attore, attore di strada per di più, dopo un’”onorata” carriera di regista in teatri spesso anche prestigiosi. Induma Teatro invece è nato dall’esperienza delle Manifatture Knos ed è l’ultima compagnia di cui sono fondatore, insieme a Lea Barletti, anche lei neoberlinese come me. I progetti italiani con Induma, area06, Tony Clifton, Manifatture Knos continuano nonostante il nostro trasferimento anche se ovviamente a un ritmo molto più blando. Se c’è una cosa che non mi  manca è il coraggio, o l’incoscienza forse, di buttarmi sempre in nuove avventure.

Hai un rapporto molto forte con l’Italia: per il teatro hai diretto opere di Moravia, Ginzburg, Nove, addirittura classici latini come Plauto; inoltre hai proposto al pubblico italiano molti spettacoli di grandi artisti tedeschi come Brecht, Fassbinder, Büchner…

Ho iniziato portando autori del mio paese d’origine nel mio paese d’adozione e la cosa è poi proseguita incontrando autori italiani come Tarantino, Calamaro, Moresco che ora mi piacerebbe portare in Germania. Ho sempre avuto un forte rapporto con testi e autori, tanto forte che ho pensato che buoni testi fossero il mezzo migliore per creare un discorso sul nostro tempo, per riscoprire il teatro come ottimo strumento di dialogo per una società che si scopre come tale proprio guardandosi allo specchio. È il motivo per cui insieme a Lea ho dato vita a un premio di drammaturgia “Il centro del discorso”. Col tempo però si è relativizzata anche questa certezza, sono diventato un po’ più italiano, lavoro con poche certezze, forse con nessuna, si potrebbe anche dire in modo caotico… al passo coi tempi!

Che cosa ti ha spinto a venire a Berlino?

L’Italia degli ultimi anni è stata deprimente. Questa sensazione è ancora più forte se vivi in provincia come noi giù a Lecce. La mancanza di prospettive, la sfiducia nella possibilità dell’Italia di riprendersi, soprattutto da un punto di vista morale dopo il cambiamento antropologico avvenuto nel ventennio berlusconiano, e la sensazione di girare un po’ a vuoto ci hanno spinto da anni verso un punto di rottura, di un cambio radicale. Innanzitutto volevamo tornare a vivere in una grande città, in cui trovare nutrimento spirituale, nuovi compagni di ventura, apertura mentale. C’era la scelta fra Roma e Berlino. Abbiamo scelto Berlino per i motivi di cui sopra e anche per i bambini, per fargli conoscere una cultura diversa, e magari dargli una possibilità in più. Roma è bellissima, ma paludosa, riesci a fare delle cose, a spostare qualcosa, ma impercettibilmente dopo un po’ le cose tornano al posto in cui erano, e alla lunga è frustrante.

I Tony Clifton sono molto amati e conosciuti nell’ambiente circense e teatrale internazionale. Come hai trovato lavorare con i Tony a Berlino?

È andata bene. Mi sembra che i Tony Clifton e Berlino si capiscano molto bene,  c’è feeling. Era la terza volta che abbiamo lavorato qui e ci torneremo ancora. C’è anche stata la scoperta nel pubblico di una comunità italiana a Berlino molto aperta, curiosa e intraprendente, l’Italia migliore. È triste dover constatare che l’Italia fa di tutto per allontanare proprio quelli che le servirebbero per rinascere.

Che cosa c’è di speciale in questa città: o meglio, perché molti artisti emergenti artisti vengono per un motivo o per l’altro  attratti dalla “vita Berlinese”?

Credo che sia il clima creativo, frizzante di questa città. La presenza di molti artisti è di per se stimolante, senti di far parte di un flusso. C’è un enorme scambio di idee, possibilità di contaminazioni. E poi Berlino ha questi spazi bellissimi, industriali, abbandonati, strappati al tempo. E questo aumenta la sensazione di uno spazio aperto alla creatività, cosa che attrae enormemente.

Per concludere,  ci sarà la possibilità di assistere  nel prossimo futuro ad un tuo spettacolo oppure ad un’altra performance dei Tony Clifton Circus?

Certo, con i Tony torneremo sicuramente al Kater Holzig in giugno con “La morte di Babbo Natale”, forse facciamo anche qualche replica di “Rubbish Rabbit” al Sisiphos e al White Trash, probabilmente andremo al festival Fusion quest’anno e comunque abbiamo l’intenzione di intensificare la nostra presenza Berlinese negli anni a venire. Poi sto lavorando, insieme a Rolf Kemnitzer, ad uno spettacolo basato su interviste ad immigrati turchi della prima generazione, che approfondirà il concetto di Heimat. Vedrà la luce in marzo al Thyatrom. Nel frattempo collaboro con Martin Clausen dei Two Fish per il suo nuovo spettacolo “Don’t hope!” da fare al Hau e poi mi piacerebbe fare uno spettacolo da un testo di Lucia Calamaro, “L’origine del mondo. Ritratto di un interno”, di cui ho organizzato una lettura scenica all’Istituto di Cultura Italiano in dicembre. Altra idea che culla da tempo è quella di fare uno spettacolo con attori italiani in tedesco dal testo di Antonio Tarantino “Materiali per una tragedia tedesca” sugli anni della RAF.

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