I Gaslight Anthem, predicatori del rock, a Berlino
di Valerio Bassan
Di solito funziona così: compri un disco che ti piace, lo consumi per settimane, poi inizi ad ascoltarlo un po’ meno – il cosiddetto calo fisiologico – e pochi giorni prima del concerto lo fai tornare in heavy rotation, per ripassare i testi e caricarti in vista del live. Appena tornato a casa, alla fine dello show, lo metti in archivio per un bel pezzo. Non tanto perché non ti piaccia più, quanto piuttosto perché l’apice della passione è sublimato mentre cantavi a squarciagola le canzoni sotto al palco.
A me, di solito, succede così. Stavolta no. Stavolta è diverso. Dopo avermi fatto ritornare la fiducia nel rock bello ed onesto d’altri tempi, i Gaslight Anthem sono riusciti anche a farmi cambiare abitudini. E così, al termine del concerto che i quattro ragazzi di New Brunswick, NJ, hanno tenuto stasera alla Columbiahalle di Berlino – un palazzetto da 3500 persone -, mentre torno verso casa, mi ritrovo ad ascoltare nuovamente Handwritten, nella mia personale top 3 degli album usciti in questo ricchissimo (musicalmente parlando) 2012.
La data berlinese del loro tour è Ausverkaufen (sold out) da giorni, a testimonianza dell’affetto che circonda Brian Fallon, Alex Rosamilia, Alex Levine e Benny Horowitz anche dall’altra parte dell’Atlantico. Fuori dal palazzetto di Tempelhof si vendono le magliette taroccate, ulteriore segnale di una popolarità crescente. All’interno, l’età media è inaspettatamente alta: sui 30, azzarderei, visto che la numerosa presenza di under 25 è controbilanciata da uomini e donne ampiamente oltre gli “anta”.
A scaldare i cuori, in apertura, ci pensano il sempre impeccabile Dave Hause, 34enne frontman dei The Loved Ones in versione solista, e il duo indie rock Blood Red Shoes – lei chitarra, lui batteria, una sorta di White Stripes a ruoli invertiti -, attivi dal 2005 e giunti ormai al terzo disco. Ma l’attenzione del pubblico, manco a dirlo, è tutta per Fallon e soci. Per capirlo, basta sentire il boato quando salgono sul palco. I Gaslight Anthem non si proclamano “salvatori del rock”, eppure, a giudicare dal trasporto con cui il pubblico accoglie “Mae”, il pezzo d’apertura, ci stanno andando molto vicini.
Sul palco c’è un “quinto incomodo”: è Ian Perkins, chitarrista e fonico, ora promosso a membro effettivo durante i live. Le tre chitarre presenti contemporaneamente on stage formano un muro sonoro davvero invidiabile, con Fallon concentrato più sul cantato che sulla ritmica a sei corde. Un cambio di modulo che giova al biondo frontman, apparso decisamente più in forma rispetto alle esibizioni del passato e capace di cantare anche i pezzi più complessi senza la minima sbavatura. Che anche lui abbia una chitarra al collo me ne accorgo solo quando, durante un intermezzo strumentale, regala al pubblico un assolo in slide con una bottiglia di Beck’s.
Come da pronostico, la scaletta pesca a piene mani da Handwritten. Le canzoni più belle ci sono tutte, da “Mullholland Drive” a “Here Comes My Man”, passando per “Too Much Blood” e “Howl”. Manca solo “Biloxi Parish”, per quanto mi riguarda uno degli episodi migliori del disco. Il pubblico apprezza, e con stupore di Fallon i sing-a-long che arrivano dal pit sovrastano addirittura l’impatto vocale della band. Davvero niente male, considerata la portata di decibel dell’impianto della Columbiahalle. L’inizio è da greatest hits: dopo “Mae”, ecco nel giro di pochi minuti “’59 sound” e “Old White Lincoln”, tratte dal secondo lavoro in studio della band.
Stop’n’go al millesimo, cori da stadio e cover di qualità tengono alto fino alla fine il tiro del live. Da “American Slang” i ragazzi traggono “Old haunts” e “The queen of lover Chelsea”, da “The ’59 sound” ecco invece “Film noir”, “Casanova, baby!, “The patient ferris wheel” e “Here’s looking at you, kid”, mentre “Sink or swim”, il loro album d’esordio, finisce nel dimenticatoio. Dopo la classica “The backseat” – canzone che vanta uno dei più epici “incipit” punk di tutti i tempi – la conclusione è affidata ad un misto di classici e sorprese: “She loves you”, “Keepsake”, “American Slang”, “Astro Zombies” (cover dei Misfits) e l’immancabile “Great Expectations”, per un ultimo giro di giostra da incorniciare.
E mentre cammino verso la metropolitana, solo in mezzo alla folla, mi risuonano nella mente due versi di “Mae”: “Stay the same, don’t ever change / Cause I’d miss your ways”. Mi auguro che questi ragazzi non cambino mai, e continuino a portare avanti la loro musica con questa freschezza e questa poesia. Mi cullo in questo pensiero, mentre sull’iPod torna a girare Handwritten. E anche la pioggia di Berlino, stanotte, sembra più leggera.