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TEUTONICHE SCHEGGE – DAF: Deutsch als…?
Di Miriam Franchina
Dopo 1 anno e mezzo si torna fra i banchi per un esame: non è facile dopo un anno di colletto (o collare di forza?) bianco, e la tensione mi consuma. Devo sottopormi al test DAF, il test che certifica una conoscenza della lingua tedesca adeguata all’ambiente accademico.
Al solito: si ascolta, si legge, si scrive e si parla. Come da prassi, in aula solo penna, documento d’identità e una bottiglietta d’acqua, uno sguardo all’orologio e via. Io mi sono portata anche una dose cospicua di pocket coffee, a fine giornata almeno potrò dire che la tachicardia è solo dovuta ad eccesso di caffeina e non al mancato aplomb in sede d’esame. Come me, altre migliaia di persone intorno al mondo stanno facendo lo stesso test, nelle stesse ore, al netto del fuso orario: il DAF è la chiave per poter studiare in Germania, dove le tasse universitarie sono molto basse o, addirittura, inesistenti.
Ma, come ogni assembramento di esseri umani, anche questa splendida mattinata di ghiaccio e sole mi permette di esercitare gli occhi in un po’ di human watching spicciolo, sguazzando negli stereotipi e nei luoghi comuni che mi piacciono tanto.
Il mio numero d’iscrizione mi assegna ad un’aula dove noto solo occhi a mandarla: vicino a me scorgo un P.Lee che il passaporto mi suggerisce essere coreano. La lista include cinesi, giapponesi, thailandesi. A salvare l’onore dei caucasici, quando ormai stavo per perdere ogni speranza, si palesa un ingombrante danese, ovviamente di cognome fa Larsen. Ogni volta che alzo la testa dai fogli per sgranchire i pensieri, l’unico altro capo che incontro sulla mia linea di vista è la sua, che sovrasta l’esercito di calotte craniche nere e che non si ergono sopra il metro e sessanta.
Dalla schiera degli asiatici (non riesco proprio a distinguerli, potrebbero avere dai 15 ai 42 anni) fa capolino una certa T. Pan che, infrangendo le regole, necessita dei servizi dopo l’inizio della prova. L’esaminatrice bavarese tentenna: telefona ad una collega che scorterà la debole vescica in bagno. Il mio compagno di melanina freme nella sua hipsteritudine: “Scusi, non è problema nostro se lei non ha pensato prima ad andare in bagno”. Solo il giuramento di una protocollazione del fattaccio cheta lo scandinavo sdegno, e la prova prosegue, fra sospiri e fruscii di fogli.
Ogni tanto, in mancanza di ispirazione personale, mi verrebbe da sbirciare quanto scrive P.Lee, ma è talmente raggomitolato sul banco, scrive talmente minuscolo, che sarebbe solo fatica sprecata. Dietro di me, una thailandese il cui cognome occupa due righe si è tolta le scarpe, lo capisco dopo un certo obnubilamento mentale, che combatto a suon di pocket coffee perché le finestre non si possono aprire. Quando mi incaglio su un ostacolo grammaticale troppo ostico, indugio sull’unica distrazione visiva che mi è concessa: un’enorme cartina della Repubblica Federale, che troneggia su tre quarti della parete. Nel mio campo visivo c’è, guarda caso, il Baden Wurttemberg e così il mio screen saver mentale sono Memmingen, Reutlingen, Tubingen e tutta la ridda di città e paesucci che così finiscono.
‘ngen, ‘ngen, ‘ngen è il nuovo zen.
A metà esame abbiamo 3 quarti d’ora d’aria, se così si possono chiamare. Possiamo pascolare tra le aule, il corridoio e i bagni, guai a chi armeggia con cellulari, per non parlare di voler uscire dall’edificio. Il buon Larsen si avvinghia alla macchinetta del caffè e ne prosciuga qualunque bevanda disponibile (calcolando che: latte macchiato, cappuccino, cioccolata cremosa e milchkaffee sono tutte la stessa, zuccherosa brodaglia). Con buona pace mia, noto che il deflusso dalle altre aule conforta la proporzione demografica ormai imperante: oltre ai soliti asiatici, ci sono indiani e nordafricani. O forse è solo perché, iscrivendomi all’ultimo minuto, l’unico posto disponibile trovato era al Eurasian Institute?
In effetti, alle pareti campeggiano festose foto di scambi culturali algerino-tedeschi, sino-turchi e tutte le possibili varianti intermedie. La AOK (assicurazione sanitaria) ha tappezzato le pareti con cartelloni ammiccanti in arabo (credo) e cinese (credo) con tariffe scontate per gli studenti. I dirimpettai di piano sono l’associazione turca di Berlino, e lasciando ‘ngen per riposare lo sguardo alla finestra, è al canale di Kreuzberg cui rivolgo i miei sospiri di esaminanda.
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Nonostante siano solo le 11.00, qualcuno ingurgita profusioni di panini, e c’è chi osa, addirittura, ingollarsi una lunch box raccattata a qualche untuoso take away. In un angolo ritrovo qualcuno di caucasico: Svetlana sta parlando fitto con Ekaterina, e addirittura poco dopo sento una litania contro l’esame in spagnolo, ma con chiaro accento brasiliano. Mi conforta constatare che non tutti i carioca sfoggiano fisici da Copacabana. Più in là, una minuscola asiatica (mi sbilancerei: thailandese) cerca di impietosire l’inflessibile esaminatrice a lasciarle tempo per trascrivere le risposte sul formulario apposito.
Risoluta a non violare la dieta di soli pocket coffee, butto un occhio in aula: i vari Lee, Pan, Chin sono tutti ancora in classe. Quella senza scarpe dorme, evidentemente a comando, e quasi sembra non respiri. Il mio vicino ha chiuso gli occhi, ma è ritto come un fuso: sospetto che abbia un chip impiantato nelle palpebre e che ora stia ripassando la declinazione degli aggettivi mentre finge un pisolino di riflessione.
Ma il vero momento di breakdown arriva quando siamo tutti a tu per tu con un computer e incuffiati e dobbiamo sostenere l’orale: a tutti sono propinate le stesse domande, e tutti contemporaneamente diamo il nostro meglio. Significa che, ogni volta che ho finito e attendo il beep finale, in sottofondo ho una ridda di blablabla cruccofoni senza R, fatto salvo il solito danese. Sembra un po’ di stare dentro un macchinario per la TAC, bombardati da suoni indistinti e con lo stesso nervosismo. Anche perchè, solo in un esame di crucco poteva esserci come prova (anzi, ben due prove), quella di descrivere un grafico e le sue variazioni.
Alla fine, quando l’esaminatrice pronuncia la fatidica parola “fine”, si sciolgono i ranghi. Anche il mio vicino coreano acquisisce sembianze umane, mentre si ingiacca e si indirizza verso la metro: avrò spento il microchip oculare.
Prima di tornare alle faccende quotidiane, mi sembra d’obbligo tributare omaggio all’eurasiatismo del quartiere, e mi lascio andare alla deriva al mercato turco di Maybachufer dove, probabilmente, nessuno sa cosa sia il test DAF, ma pomodori e arance hanno sapore di casa, così come il baffo che in loop urla “Ein Kilo, ein Euro schöne Dame, ein Kilo, ein Euro” e la signora che nel suo trabiccolo impasta torte salate.
Tornando a casa con variopinti sacchetti di spezie, verdure e un pane arabo, dimentico i dolori dell’esame, almeno fino al momento della verità: tra 6 settimane, insieme a tutti gli altri esaminandi del globo di questa tornata, avrò il riscontro.
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Ho già scritto un po’ di tempo fa un commento positivo a un articolo di Miriam e posso solo confermare quanto avevo detto allora.Brava,intelligente ,ironica e soprattutto CORRETTA. I suoi testi sono-e questa è veramente e purtroppo un’eccezione-senza errori,senza parole storpiate(parlo dell’italiano),con gli articoli al posto giusto…Brava,continua così per favore!
divertente! vorrei fare anch’io il test daf prima o poi e la tua storia un po’ mi fa sorridere e un po’ mi spaventa 😉 In bocca al lupo per i risultati!
ciao miriam 🙂 Il tuo articolo è molto interessante ^__^ sarebbe possibile parlare con te in pvt? Avrei un po’ di domande da farti essendo un bel po’ spaesata sul da farsi…ti ringrazio per un’eventuale risposta 🙂