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TEUTONICHE SCHEGGE – Riflessioni orobiche

E dunque si sciacquano i panni in … Serio. Non fa lo stesso effetto dell’Arno, ma ormai frequento solo italici che, vengano da sopra o molto sotto il Po, dicono sempre e comunque mòto, fòto, tòpo. Una specie di complotto universale contro l’orobofonia, aprioristicamente bollata come cacofonia.
Una volta coi piedi sul suolo natio, i cartelli in doppia lingua mi accolgono affettuosamente: Őre al Sére tremula sotto il sole cocente, sempre fregiandosi del titolo “Aeroporto il Caravaggio”, nonostante le ricerche più recenti diano il grande artista in quota “milanese”, ovvero la provincia da cui i cicianèbia ad ogni weekend di sole attraversano l’Adda colonizzando selvaggiamente ogni centimetro di verde disponibile.
Ah, patria, mia cara patria. Ricordo di essermi sentita punta nel campanilismo, quando durante un corso all’università di Milano, sul bel verso su di Verlaine
Votre âme est un paysage choisi
Que vont charmant masques et bergamasques
Jouant du luth et dansant et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques
la professoressa ritenne di dover puntualizzare che si trattava di danze burlesche, e non di rozzi contadini.
Più recentemente, ho scoperto che si chiama “Bergamo”  la discoteca più in voga di Stoccarda, capitale della Svevia.
E Schwabenland (Svevia) e Bergamaschia qualcosa in comune, in fondo, ce l’hanno. All’ufficioso annuncio della mia conquista di uno svevo, un’amica prussiana pragmaticamente sentenziò che non poteva auspicare miglior connubio italo-tedesco: gli svevi sono cattolici, mangia spaghetti e “caldi”.
Naturalmente, tutto va contestualizzato. Mangiaspaghetti significa magia-spätzle, essere cattolici in Germania non ha lo stesso sapore che esserlo sotto le Alpi, ed infine se una nord tedesca dà degli affettuosi ai terroni crucchi, non ci si deve immaginare plotoni di Marisa Laurito che si danno pacche e baci per strada.
Riflettendo che di noi bergamaschi si sostiene non siamo proprio degli amabili compagnoni, e che siamo dei mangiapolenta, tutto sommato ad ora il tandem regge piuttosto bene.
La Schwabenland è una regione storica, che non coincide con un Land amministrativo: si dipana tra Württemberg e Baviera. Il Baden-Württemberg per se è un Land di fusione nato solo dopo la II Guerra Mondiale, e guai a scambiare i Bandeser per svevi: reagiscono stizziti come i brianzoli (altra provincia nuova e artificiosa) quando li si scambia per orobici.
Il cliché tipico dello svevo è: gran lavoratore, ma dal braccino corto. Di loro si dice che “Schaffe, schaffe, Häusle baue”, ovvero che lavorino sodo con il solo obiettivo di costruirsi una bella casetta. Per questo a Berlino, crocevia di artisti senzatetto ma muniti di Hartz IV, non sono ben visti: insieme ai bavaresi, rappresentano lo stereotipo del sud tedesco sgobbone che, fatti i soldi, compra casa nella capitale.

E siccome di gruzzolo gli svevi non mancano (il Land è fra i più benestanti e vanta la miglior qualità della vita in Germania), ecco che sono ritenuti parte del macroscopico gioco di speculazione che da qualche anno fa salire costantemente e, talvolta, vertiginosamente gli affitti in città.

Oltre ad avere un “istrice nella tasca” (“einen Igel in der Tasche” mi sembra geniale per indicare chi è taccagno), gli svevi sono accusati di essere provinciali e di chiuse vedute, il prototipo del contadino inurbato che tiene, però, la vanga sotto il letto. Rammento il mio primo, funesto tentativo al biliardo, quando qualcuno apostrofò la mia grazia nei movimenti ricordandomi che non stavo rastrellando un campo di patate, nonostante il verde che mi trovavo davanti.

Svevi nel quartiere di artisti per eccelleza, Prenzlauer Berg: provinciali, curiosoni del vicinato,
non avete il senso della cultura berlinese.
Cosa ci fate qui???

Inequivocabile segno di riconoscimento dello Schwabe è, senza alcun dubbio, la parlata. Così come dopo le mie prime tre parole il venditore ambulante ghanese di Milano sapeva già identificare che dovevo provenire da un punto imprecisato fra Bergamo e Brescia, uno svevo si riconosce al volo. Le S diventano SCH, amano i diminutivi e sono fieri di “sapersela cavare con tutto, fuorché con il tedesco”. Dal centro sportivo del mio paesello, sento la Lega celebrare l’orgoglio celtico, incurante del QI del Trota e al grido di “mai mulà, tegn dür”. Anche le badanti ucraine e i muratori pakistani, in fondo, dopo un po’ acquisiscono quella cantilena così raffinata ed apprezzata in tutto lo Stivale.

Agli Svevi piacciono i Maultauschen, mia mamma alla faccia del clima tropicale ha già in frigo i casonsèi d’ordinanza. Della campagnola cucina sveva si dice che non si possa fare a meno di sughi, sughetti e brodi, dove intingere il buon pane e gli immancabili Bretzel, e qui un pasto non può finire senza la pucia, ancor meglio se la si può sbafare con delle croste di polenta secca.
In Svevia Giulietta e Romeo rivisitato in chiave moderna vede la giovane figlia di un rampante fornaio industriale innamorarsi del rampollo di una generazione di fornai tradizionali, con conseguente scontro (inevitabilmente, visto l’attaccamento ai soldi) economico tra la grande e piccola distribuzione.
Curiosando su internet per sconfiggere l’afa padana, scopro che, forse per respingere al mittente le accuse di non capire nulla di arte, a Berlino esiste un’associazione culturale sveva, e che quest’anno ci sarà la Schwabiennale (la biennale di una settimana dedicata a tutto quanto dal sud viene).
Ripromettendomi di farci un salto, e di visitare di persona i crinali collinosi e ricchi di vigne della Svevia, torno ad ingrassare ai piedi delle Orobie, combattendo le zanzare cullata dalle telecronache di Franco Bragagna.

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