PANEM ET CIRCENSES – Panem a lievitazione ultra rapida
La serata è finita, Panem et Circenses ha fatto il suo debutto berlinese. “Posso darlo ad Olot?”, chiedo a Miriam tenendo tra le dita l’ultimo cuoricino di pollo appena liberato dal piccolo torace della Barbie, miglior attrice non protagonista di uno dei tre interventi di Food Translation che hanno corredato l’opening. “Di solito non gli piacciono le interiora, ma prova, se lo mangia daglielo pure.”
Olot, un grande pastore peloso (che meglio non so identificare, scusa Olot!) entra nella galleria e trotterella incuriosito fino alla mia mano tesa amichevolmente verso il suo bel muso allungato. Annusa la mia offerta un paio di secondi e decide che è il caso di provare. Delicatamente prende tra i denti il bocconcino corredato del suo condimento di scalogno e lo mastica con un certo interesse, molto lontano dalla voracità che tipicamente ascriviamo agli animali e più vicino, invece, alla degustazione che altrettanto tipicamente (ma a torto, spesso) ascriviamo agli uomini.
Lecca con gusto i propri baffi e le mie dita, gli occhi guizzanti e contenti si muovono in cerca di sguardi di approvazione, come a cercare qualcuno con cui condividere la gioia per il boccone succulento appena donatogli, scodinzola eccitato e saltella prima a destra poi a sinistra, gira su se stesso e, così come era venuto, trotterella allegro fuori dalla galleria, al fresco della sera berlinese. Miriam ride sorpresa, “non le mangia mai le interiora” ripete divertita; “di solito non sono così buone” le rispondo sorridendo. La serata è finita, Panem et Circenses ha passato anche la prova più difficile, il palato del cane raffinato che “di solito” non mangia le interiora.
La stanchezza e la tensione di questi giorni sono svaniti qualche ora fa, quando siamo entrati alla Emerson Gallery. In un tempo record impensabile Panem è nato, ha fatto il suo primo incontro importante da cui è scaturita una proposta, la proposta è diventata un progetto con un forma e dei contenuti, la forma e i contenuti sono passati dalla testa alla carta, dalla carta alla cucina, dalla cucina alla galleria.
Andiamo con ordine. Domenica pomeriggio alle sette finiamo di stampare in casa le prime prove di biglietti da visita, ci vestiamo di corsa e di corsa raggiungiamo Friedrichshain dove gli amici de Il Mitte hanno organizzato l’ “Erste Il Mitte Party” in un localino che chiamare “intimo” sarebbe un eufemismo. Valerio ed Elena hanno fatto la danza del sole e qualcuno li ha ascoltati. É una serata di sole, non calda (siamo a Berlino, ci mancherebbe) ma piacevole, di nuvole neanche l’ombra e per fortuna perché il party è un successo, ci sono più di un centinaio di persone che giovialmente chiacchierano, si conoscono sul marciapiede e fanno avanti e dietro dal bancone del bar tra un Augustiner in bottiglia e una Berliner alla spina.
Valerio chiede un momento di attenzione e presenta “Il Mitte”. Tutti educatamente interrompono le proprie chiacchiere ed ascoltano con interesse le parole del direttore che saluta, ringrazia, racconta e risaluta, emozionato ma sicuro di sé perché il progetto che Elena e lui hanno creato è forte, intelligente e serio. Ritorniamo alle chiacchiere, Ale parla con Elena, io esco e trovo il direttore che parla con una ragazza piccolina dai capelli neri e gli occhi vispi. Come mio solito mi inserisco, non invitato, nella conversazione e dopo qualche frase di circostanza, rimasto solo con Barbara, sto già sproloquiando entusiasta sul nostro progetto e su quanto non vediamo l’ora di partire dopo un mese e mezzo di atrofia cerebrale causata dal ripetitivo e faticoso (per quanto assolutamente divertente e remunerativo) lavoro in una gigantesca Pizzeria del centro.
Barbara è un’artista, nonché una curatrice (nonché la direttrice artistica del Tacheles, scusa se è poco! n.d.r.), e di lì a pochi giorni inaugurerà una personale in una galleria di Mitte all’interno di una rassegna da lei stessa curata e dedicata all’arte italiana. Soccia, sarebbe bello riuscire a fare qualcosa… sto pensando già a come costruire un contatto ed una collaborazione quando lei mi coglie di sorpresa e mi chiede “quanto costa?” “Quanto costa”, cosa? Penso io e le dico che non ne ho idea perché non abbiamo fatto in tempo a fare altro che qualche biglietto da visita casalingo e che stiamo appena iniziando a costruire il nostro progetto concretamente. Barbara mi parla della rassegna che sta organizzando, “Buongiorno e Arrivederci” e mi dice che le piacerebbe avere qualcosa con il cibo al suo Opening ma non il solito catering, generalmente caro e poco interessante.
Ecco, questo è un treno che passa: i treni non passano una sola volta nella vita, non è vero; passano a volte, certo non in continuazione e nemmeno tutte le volte che vorremmo prenderne uno, ma passano e quando passano bisogna comunque saltarci sopra, anche solo per andare alla fermata successiva. L’indomani prendiamo un appuntamento via e-mail e già il giorno dopo siamo nello studio di Barbara al terzo piano del Tacheles dove tra i suoi lavori ci aspetta seduta in poltrona ascoltando musica sinfonica alla radio. Chiacchieriamo del più e del meno per un’oretta buona, poi entriamo nel vivo e le raccontiamo cosa ci ha spinti a venire a Berlino, cosa vorremmo fare e qual’è la filosofia che sta dietro al nostro progetto. Lei ci ascolta con un leggero sorriso che non riusciamo a decifrare: sarà un sorriso indulgente di chi ne ha viste tante e si trova di fronte gli ennesimi sognatori sbarcati con tante idee dentro la testa e poca testa fuori dalle idee o sarà un sorriso di vero e vivo interesse per quello che le stiamo raccontando?
Man manco che i minuti passano, l’imbarazzo scema e le parole scorrono più rilassate a comporre affermazioni, propositi, convinzioni e proposte. Ci rendiamo conto che Barbara è davvero interessata a quello che le stiamo raccontando, di più, è felice di quello che le stiamo dicendo e alla fine di questo primo appuntamento ne abbiamo già fissato un secondo per la fine della settimana. Le abbiamo detto della nostra volontà di provare a tradurre le sue opere attraverso il linguaggio del cibo, lei ci porta a casa sua, ci mostra i suoi lavori e ci da carta bianca. Ci rivedremo nel fine settimana per dirle cosa abbiamo pensato: il tempo è poco, due settimane in tutto, bisogna agire in fretta.
Sulla S3 per Koepenick non riusciamo ancora a credere a noi stessi: abbiamo un primo lavoro come Panem et Circenses, non siamo nati nemmeno da 72 ore e ci è già capitata un’occasione d’oro, saremo in una galleria a Mitte con un nostro intervento, tutto nostro, cose da pazzi! I giorni scorrono rapidi, al secondo appuntamento portiamo un progetto già completo: saranno tre interventi, uno per ognuna delle modalità e delle tematiche sviluppate da Barbara nei suoi lavori, e ovviamente si potranno, si dovranno mangiare, e ovviamente saranno buoni! I giorni scorrono rapidi e la nostra eccitazione cresce. I giorni scorrono rapidi e la tensione cala, man mano che mettiamo assieme i pezzi del nostro mosaico, uno per uno, ordinati come degli aiutanti di Babbo Natale svizzeri. I cibi, le stoviglie, i supporti, le informazioni, i materiali promozionali. Troviamo persino una vecchia valigia di cartone stupenda: è a righe verticali che richiamano il giallo grano e il rosso vinaccia di Panem et Circenses, è perfetta, è la valigia dell’attore. Siamo pronti.
Arriviamo alla Emerson Gallery alle cinque di pomeriggio, il Vernissage è alle sette. Abbiamo due ore per allestire. Barbara, intenta a sistemare gli ultimi dettagli, e Russell, il fantastico gallerista mezzo newyorkese e mezzo berlinese che si veste come un gangster degli anni ’20 (bretelle comprese) e ha una gentilezza d’altri tempi, ci guardano incuriositi mentre “usciamo” dalla valigia di cartone le nostre creazioni. In un’ora e tre quarti il nostro setting è pronto (come professionisti consumati abbiamo calcolato alla perfezione i tempi…che culo!) Barbara e Russell sorridono, noi anche, ci siamo, ora non resta che aspettare la gente. Chissà se mangeranno? Chissà se saranno timidi e non si azzarderanno a toccare le eat-stallazioni. Chissà se lasceranno tutto lì perché gli fa impressione il cuore di pollo e gli fa schifo il cavolo crudo. E i tamarindi? Avranno il coraggio di prenderli in mano e sgusciarli per masticare quella polpa molliccia e dolciastra? Oddio… Le tipiche, incontrollabili e inevitabili domande paranoiche pre-evento.
Sono le sette, presto avremo tutte le risposte. Le risposte arrivano sotto forma di gente che cerca di staccare pezzi dal cavolo frattale messo a bella posta sull’alzatina di cristallo in esposizione perché momentaneamente è finito quello tagliato ed infilato sugli spiedi da intingere nella coppa di salsa di semi di zucca dove dita adulte si tuffano come quelle di bambini nella Nutella; non facciamo in tempo a fare un re-fil dei cuori di pollo che ecco una signora cerca di impossessarsi di quello facente parte dell’installazione conficcato con uno spillone da maglia nel petto di plastica di Barbie; i tamarindi disposti in modo da creare l’immagine di un apparato digerente scompaiono appena li poggiamo sul vassoio. I nostri dubbi e le nostre paure sono fugati, per un istante ci coglie un pensiero che va nella direzione opposta: non ce n’è abbastanza.
Russell sorride mentre siamo nel backstage a fare altri spiedi di cavolo e ci dice “Relax, don’t worry. Doesn’t metter if it finish. It’s beautiful, thank you” I bocconi volano sulle note di Michael Nyman che ci stanno accompagnando dall’inizio dell’allestimento: Russell ci ha offerto la colonna sonora di “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” perché ha detto che quando gli abbiamo mandato i testi composti per gli interventi da tradurre in tedesco gli abbiamo ricordato Greenaway, ditemi se anche questa non è una cosa da pazzi. Incredibile. Siamo entusiasti, le persone ci chiedono spiegazioni in italiano, in inglese, in tedesco, noi parliamo, parliamo, ripetiamo e raccontiamo il nostro progetto, raccontiamo cos’è Panem et Circenses, raccontiamo che tutto questo è nato in due settimane e che siamo a Berlino da soli tre mesi.
I berlinesi ci guardano con la faccia un po’ stravolta, giustamente come il berlinese di Lucio Dalla perso nel centro di Bologna, e qualcuno ci dice addirittura che in anni di frequentazioni di gallerie e vernissage non aveva mai visto una cosa del genere. Prendendo tutto con le molle e versandoci colate di piombo sui piedi è chiaro che sentire certe cose fa un certo piacere, come fa un certo piacere sentire l’entusiasmo del gallerista che a fine serata continua a ribattere ai nostri “thank you” con sonori “NO, thank you!”; e come può non fare piacere vedere Barbara felice di averci scelti perché ci siamo inseriti alla perfezione tra i suoi lavori e nella sua organizzazione?
Cavolo (è proprio il caso di dirlo) è chiaro che fa un certo piacere, ma il piacere più grosso è che il nostro cuoricino di pollo abbia mandato in sollucchero Olot, il cane raffinato che non mangia le interiora.
Magister_L
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