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TEUTONICHE SCHEGGE – Teutoniche Epifanie

I tedeschi, si sa, sono flessibili come barre di acciaio inox. Il prode guerriero germanico, temprato dalla caccia e dalle nevi, che prima o poi si fa un sol boccone del lascivo romano sdraiato sul triclinio al sole.

L’aneddoto classico non puó che essere biruote. L’altro giorno, pioggia battente da film gotico-vampiresco, oso attraversare in bici col rosso. Non un veicolo all’orizzonte, metri e metri di grigiore, l’asfalto che si confonde con il cielo, in una sulfurea orgia di pioggia e smog. A mia discolpa: volevo evitare di bagnarmi perfino l’anima, perché va bene che si nasconde in ctonie, imperscrutabili profonditá, ma quando il cielo decide di mollare ogni ormeggio, anche lei ansima alla ricerca di terra asciutta.

La ruota anteriore non fa in tempo a valicare il confine tra lo spazio assegnatomi dalla luce rossa del semaforo per biruote, che subito una voce tuona, proprio a cercare quell’animella mediterranea, tutt’intenta a scappare dalla furia meteorologica e a invocare che le si conceda pietá, in fondo è metá luglio.

Mi giro, pensando di trovarmi di fronte a qualche biblica apparizione. La Giustizia, stavolta, ha deciso di palesarsi nella meste vesti di un anonimo quarantenne, felpone e jeans da lavoro, caschetto alla Goerge Best color evidenziatore TrattoMarker completamente fradicio. Al suo cospetto, ogni mia facoltá di interazione con la lingua germanica si annulla. Scruto le sue sembianze cosí innocue, paventando l’arrivo di qualche apocalittico giustiziere alato.

Ma coi prosaici tempi che corrono, è piú facile imbattersi nella Giustizia col fascino della divisa.

Fine di una giornata lavorativa estenuante, di quelle che ti lasciano in corpo solo l’energia sufficiente per maledirle. Arranco sulle prime pedalate e mi metto il cellulare all’orecchio. Sono nel viottolo davanti all’ufficio, oltre a qualche sparuto passante, ci sono solo gli orsi-mascotte del parco, ormai stufi si mettersi in posa per i giapponesi di turno. Mentre mi avvio stracca, ecco i due soldati a guardia dell’ambasciata turca che, a dispetto della rotonditá ventrali, si producono in placcaggio degno dei migliori rugbisti.

Mi avranno infilato un kalashnikov nello zainetto da Giovane Marmotta e non me ne sono accorta, Ocalan é evaso e dopo un’operazione chirurgica ha deciso di assomigliarmi.
No.
Parlo al telefono. E pedalo.. I due emissari divini sfoggiano, ovviamente, armi d’ordinanza. Cado dalla bici e con un profluvio di francesismi ci rimonto. Stavolta mi sembra che la Gisutizia abbia davvero esagerato: mentre fuggo a pedali levati, ritrovo la favella crucca e urlo: “mi avete rotto voi tedeschi, possibile che non si possano mai fare due cose insieme? Nel mio Paese pedalare e telefonare non è reato”. Per fortuna i due appuntati devono aver ricevuto troppi kebab come mazzette, e decidono di ignorarmi per tornare a difendere l’ambasciata.

A completare la triade dell’Epifania dello Spirito Teutone, il mio coinquilino: il brandeburghese, il monolitico, l’inscalfibile D. É in ferie e, poiché è un crucco della versione sedentaria, non di quelli sandalo-calzino bianco-protezione solare 50, rimane a casa in ciabatte e tuta da jogging in acetato. Alle 8.22 mi titilla il cellulare. Tutta ringalluzzita, mi aspetto un mattutino sonetto amoroso.

É D., e questo significa una sola cosa: ménage domestico.

Il “Reinheitsgebot” (“Editto della Purezza”) bavarese, sottoscritto il 23 Aprile 1516.

“Miriam, cosa è successo? La cucina sembra un campo di battaglia, c’é joghurt ovunque”. La prima reazione è incredulitá pura: un virtuoso uso della metafora, che la germanità doc di D. si stia rammollendo a furia di convivenza?

Poi è cominciato l’esame di coscienza. Eh sí, in effetti nella fretta mattutina, quel fellone dello joghurt ha fatto un triplo salto carpiato con avvitamento e si è schiantato al suolo. In tremendo ritardo, con la morte nel cuore per lo spreco dell’unico alimento mattutino che avevo a disposizione, ho pulito alla bell’e meglio, sperando di rimediare al fattaccio al mio rientro.

Ma D. non se l’è presa. Il suo è arrovellamento dela sinapsi, incredula incomprensione della dinamica dei fatti. Non puó capire come sia possibile, come il mio nervoso di questi giorni possa tramutarsi in mancato controllo della sequenza impulso neuronale / movimento delle braccia. Quando torno, non una goccia dello joghurt è stata rimossa, come su una scena del delitto, D. mi mostra l’ampio raggio raggiunto dal liquido schiantatosi. Lo fa senza un minimo di rancore, è proprio perplesso. Credo abbia googlato “balistica dello joghurt” per capire che arco di caduta lo scatolino abbia avuto, per ricostruire le fasi del volo e il tragico momento dello schianto al suolo.

Ovviamente, avrei potuto lasciare lo joghurt a fermentare per giorni, e D. ci avrebbe zompettato intorno pur di non violare il diritto all’esistenza dello joghurt, che come si sa è prevista dallo Statuto per i Diritti e Doveri dei Prodotti Caseari.

Ed è lo stesso coinquilino che, messo a disagio dal repentino esplodere del mio malumore, mi guarda con aria da animale braccato e mi chiede “vuoi una birra?”

Ah, pragmatismo teutone, ah spirito d’inossidabile acciaio fedele nei secoli, ah anime probe che non infrangerebbero mai la Legge del Semaforo pur di risparmiarsi il diluvio universale. Per la rottura dei tubi della lavatrice c’è il manuale, giá la rottura dello joghurt gli ha causato qualche grattacapo.

Lo sfaldamento dei miei nervi esula dalla sua capacitá di raziocinio, e non puó che propormi, estremo atto d’amicizia, di mettere la parola “fine” scritta con soli luppolo, acqua e orzo, per non violare la legge della purezza.

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