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Salvata da una cartolina: la storia di Alice Licht

È possibile salvarsi la vita solo spedendo una cartolina? È possibile che un solo incontro basti a cambiare una vita? Questa è la storia di Alice Licht, nata nel 1916 in una famiglia ebraica di ceto medio a Berlino-Tiergarten, la cui vita, inevitabilmente, fu segnata in modo tragico dagli eventi storici del suo tempo. Alice avrebbe voluto studiare medicina, ma, nel 1933, a soli 17 anni, vide le sue aspirazioni brutalmente interrotte dalle leggi razziali naziste che le impedirono di proseguire gli studi. Il suo sogno di diventare medico fu infranto, e Alice fu costretta a reinventarsi professionalmente, formandosi come segretaria.

Dal 1938, Alice iniziò a lavorare per l’Associazione di aiuto agli ebrei in Germania, un’organizzazione che si adoperava per sostenere la comunità ebraica in un periodo di crescente ostilità e discriminazione, che non era che l’inizio di un’escalation che avrebbe portato al capitolo più nero della storia d’Europa.

Con l’avvento della primavera del 1941, la situazione per gli ebrei in Germania si fece ancora più disperata. Alice divenne una delle tante lavoratrici forzate di Berlino, presso la fabbrica di seta artificiale ACETA di Berlino-Lichtenberg, di proprietà della I.G. Farbenindustrie AG. La fabbrica era un luogo di lavoro estenuante, dove venivano prodotti tessuti da usare nei paracadute per l’esercito tedesco. Le condizioni erano dure e il lavoro estenuante.

Otto Weidt. Foto: Hanay, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons [cropped]

L’incontro con Otto Weidt

Durante questo periodo, però Alice ebbe la fortuna di incontrare Otto Weidt, un imprenditore che gestiva un’azienda di scope e spazzole, impiegava lavoratori ebrei soprattutto ciechi, ipovedenti o sordi. Weidt era un filantropo convinto e si adoperò con ogni mezzo per contrastare il regime nazista, mettendo a rischio la propria vita per salvare quella degli altri, falsificando documenti e offrendo rifugio a numerosi ebrei. Otto propose ad Alice di andare a lavorare da lui, ma le cose non erano affatto semplici: un lavoratore forzato non aveva il diritto di abbandonare il proprio impiego autonomamente.

Targa commemorativa per la sede del laboratorio di Otto Weidt, Rosenthaler Straße 39, Berlino-Mitte, Germania Foto: OTFW, Berlin, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Per poter lavorare per Weidt, Alice dovette escogitare un piano per lasciare la fabbrica ACETA. Simulando i sintomi di un’ulcera gastrica, riuscì ad ottenere il licenziamento e nel giugno 1941 fu assunta come segretaria da Weidt.

Con l’intensificarsi delle persecuzioni e l’inizio delle deportazioni di massa a Berlino, nel 1942, Alice decise di nascondersi insieme ai genitori Georg e Käte. Weidt, sempre pronto ad aiutare, affittò un magazzino a Berlino-Mitte che divenne il rifugio della famiglia Licht. Dal febbraio 1943, i Licht vissero nascosti, sperando di sfuggire alla cattura. Tuttavia, otto mesi dopo, una delazione li consegnò nelle mani della Gestapo. Vennero deportati a Theresienstadt nel novembre 1943.

Nonostante le condizioni disumane del ghetto, Alice non perse la speranza. Riuscì a far pervenire alcuni messaggi a Weidt, che a sua volta le inviò clandestinamente cibo, abiti e qualche parola di conforto. 

Una foto di Otto Weidt e Alice Licht tra gli altri lavoratori della fabbrica Weidt al 39 di Rosenthal Street a Berlino. Foto: Hanay, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

La cartolina dal treno

Sei mesi dopo, però, Alice fu trasferita ad Auschwitz-Birkenau. Durante il trasferimento, in un ultimo, disperato tentativo di far pervenire al suo benefattore la notizia, riuscì ad appropriarsi di una cartolina che qualcuno aveva lasciato cadere e a scrivervi un messaggio per Weidt, accompagnato da una nota che pregava chiunque trovasse la cartolina di farla arrivare a Berlino. Alice lasciò cadere la cartolina dal treno durante il viaggio verso il campo. Incredibilmente, la cartolina giunse a destinazione.

Weidt, ricevuta la notizia, si recò ad Auschwitz con la scusa di vendere i suoi prodotti al campo. Lì scopri che i genitori di Alice erano già morti, mentre la ragazza era stata trasferita a Christianstadt, un sottocampo di Groß-Rosen. Nonostante questo ulteriore ostacolo, Weidt non si diede per vinto. Notò che dal campo andavano e venivano i forzati polacchi e riuscì a mettersi in contatto con uno di loro e a far arrivare ad Alice un messaggio con indicazioni su dove aveva nascosto abiti civili, cibo, medicine e denaro per lei.

Quando il campo di Christianstadt fu evacuato nel gennaio 1945, Alice riuscì a fuggire e a sottrarsi alla marcia della morte, forse essendo sopravvissuta proprio grazie ai pochi generi di conforto ottenuti grazie a Weidt. Raggiunse la casa di Weidt e di sua moglie a Berlino-Zehlendorf e visse lì fino al 1946, non riuscendo mai a ritrovare la serenità. In una poesia del 1945, intotolata “Ritorno – Felicità”, espresse così il suo tormento:

Una volta pensavo che tutta la mia felicità
risiedesse in quell’unica piccola parola “ritorno”.
Ovunque andassi, in tutti i miei sogni
Solo una cosa prevaleva: il desiderio di questo “ritorno”.
Le settimane passavano e correvano avanti
Nulla aveva più significato per me, solo la fede in questo “ritorno”.
E ora, dopo che questo ritorno è avvenuto
Non trovo la forza di andare avanti

Nell’estate del ’46, Alice emigrò negli Stati Uniti, dove sposò Walter Brenner, un altro ebreo berlinese sopravvissuto allo sterminio. Alice non fece mai ritorno in Germania. Morì in Israele nel 1987.

In una lettera del 1962, Alice definì Otto Weidt “un personaggio retto e di animo nobile, impavido e combattente per la giustizia, altruista e ispirato da un solo desiderio: aiutare i poveri, i sofferenti e i perseguitati”.

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